Ci siamo. Come ogni anno comincia l’impagabile sport delle classifiche di fine anno. È innegabilmente bello, divertente, coinvolge molte persone e si fa amare da altrettante. Anche Mediacritica lo fa, e sarà molto curioso scoprirne liste e gusti. Intanto, però, stanno uscendo le top ten più attese, che nella cinefilia un po’ tradizionale (di carta, diciamo) significa Cahiers du Cinéma e Sight and Sound.
Ci interessa poco, qui, discutere pregi e difetti. Secondo alcuni, infatti, entrambe le riviste sembrano un po’ addormentate e le loro scelte sarebbero piuttosto prevedibili. Vero o meno che sia, non pare affatto che siano in sintonia con il gusto italiano – definiamo gusto, in questo caso, gli addensamenti di interesse critico nei confronti di certi film. Per esempio, Adieu au langage, qui da noi recepito per lo più come estrosa mattana del vecchio maestro e difeso solo dalla cinefilia radicale, è medaglia d’argento in entrambi gli schieramenti. Come a dire, è Godard, ma non un Godard qualunque: un Godard testamentario, che mette in gioco la tecnica e l’estetica, che usa la filosofia per dirci qualcosa di misterioso, un Godard che se non è l’ultimo potrebbe però esserlo.
Fin qui, tuttavia, siamo nel regno delle sfumature. Sorprende invece Under the Skin di Jonathan Glazer, al terzo e quinto posto delle due classifiche. Se c’è un film ignorato, a Venezia 2013 e alla sua malinconia uscita in sala dell’anno successivo, era proprio questo. Non che tutti lo abbiano disprezzato, anzi. Ma ben pochi sono stati disposti a considerarlo uno dei film di riferimento di quest’anno. Piuttosto sorpreso, mi sono andato a vedere il riassunto critico che ne dà Rotten Tomatoes, dopo aver spogliato centinaia di recensioni internazionali. Cito in inglese: “With absorbing imagery and a mesmerizing performance from Scarlett Johansson, Under the Skin is a haunting viewing experience”.
Francia e Gran Bretagna, poi, sono completamente divise per quanto riguarda il vincitore. Secondo i Cahiers, nulla supera Bruno Dumont e il suo Li’l Quinquin, visto anche a Torino 2014, ibridazione tra cinema e serialità. Mentre Sight and Sound mette al primo posto Boyhood. I due film non compaiono affatto nelle top ten reciproche, segno probabilmente anche delle logiche distributive. È comunque curioso, perché su Allo Cine (corrispettivo di Rotten in Francia), Linklater gode di recensioni entusiaste e, sui Cahiers, Nicholas Elliott aveva scritto (cito in francese): “Aussi documentaire qu’expérimental, Boyhood dépasse brillamment ce dispositif par le récit, ne sacrifiant pas le plaisir au concept, liant cette séduction à notre expérience vécue. L’effet envoûtant peut paraître paradoxal tant Boyhood dégage une impression de calme ».
Inutile insistere. Diciamo che – per quanto ludiche – le classifiche di fine anno fanno emergere caratteri identitari nazionali, logiche di gruppo, startegie di lotta cinefila, «territorial pissings» e altri comportamenti non sempre trasparenti, pur tuttavia parte anch’essi della storia delle ricezioni critiche, sempre diversa da cultura a cultura.