Quello che gli Oscar non dicono
Quasi alla fine dell’interminabile cavalcata pre-Oscar, aperitivo preconfezionato a metà fra l’auto-promozione kitsch e lo spudorato product placement, arriva la mini-intervista a Kevin Spacey. Dopo ore di sfilate da red carpet, sorrisi forzati, frasi fatte e improbabili mise impettite e ingessate (ma “mio Dio quanto è bello il tuo Givenchy!”, mentre l’attrice di turno fatica a stare in piedi), una boccata di ossigeno per riattivare i neuroni: gli Oscar sono (dovrebbero essere) anzitutto un’occasione per premiare il lavoro dell’industria hollywoodiana, che non è per niente glam.
Fuori dal Dolby Theatre c’è la trance collettiva, ok, ma dentro si tirano le somme sullo stato di salute del cinema americano. E non si gioca del tutto a carte scoperte, secondo una logica cerchiobottista collaudatissima: bisogna cavalcare la Storia, perché gli Oscar non possono permettersi di stare fuori dalla realtà più di quanto non lo siano già; e occorre anche strizzare l’occhio al nuovo che avanza, evitando ogni possibile miopia dinnanzi al “futuro”. È un gioco ad esclusione: vince chi non può davvero non essere preso in considerazione. E quest’anno i trionfatori sono essenzialmente due: 12 anni schiavo e Gravity. Da un lato, l’epopea tragica dell’uomo libero Solomon Northup ridotto in schiavitù, dall’altro l’eccezionale esperienza visiva di due astronauti persi nell’ignoto spazio profondo. Seguendo uno schema ormai consolidato si celebra un film di impronta storica (come in passato lo sono stati Il discorso del re e Argo) mescolandolo con gli elogi tecnici al blockbuster d’autore (in stile Vita di Pi e Inception). Così, mentre la presentatrice Ellen DeGeneres sciorina freddure (“l’attore Barkhad Abdi viene dalla Somalia, quindi è un sommelier”) e scatta improbabili selfie capolavori di marketing (Samsung ringrazia) è lecito domandarsi: dove ci porta il cinema Usa, come sta? Sta appeso disperatamente alla realtà, attingendo ormai cronicamente a fatti e vicende realmente accaduti (c’è anche Dallas Buyers Club) e raschiando il fondo del barile della creatività. Le sette – indiscutibili – statuette a Gravity sono un premio all’innovazione stilistica incapace di fondersi con un racconto decoroso, e mentre le sirene d’allarme paurosamente suonano all’impazzata val la pena rivolgersi ad autori da sempre ignorati (Spike Jonze e Lei, Miglior Sceneggiatura Originale) o che è bene riscoprire (Woody Allen e Blue Jasmine) o sui quali investire (Sorrentino e La grande bellezza). Si salvi chi può. Anche perché l’Academy si ostina a non voler vedere il limpido sorpasso delle serie tv. Il reiterato autismo della Fabbrica dei Sogni elimina la vera rivoluzione in atto, quella dei vari Mad Men, Breaking Bad, Game of Thrones, House of Cards. Nel loro pachidermico incedere, gli Oscar ignorano la serialità e le nuove forme di narrazione, restando terribilmente imbrigliati in obblighi istituzionali che semplificano e ci costringono a ritenere straordinario ciò che straordinario non è. 12 anni schiavo ha vinto non perché sia realmente il miglior film del 2013, ma perché doveva vincere. Altrimenti, come argutamente ha chiosato Ellen DeGeneres, saremmo stati tutti razzisti.