Il film di una vita
Escluso lo sfortunato film di montaggio su Sergio Amidei realizzato nel 2005 ma mai circolato in sala, a dieci anni da Gente di Roma Ettore Scola torna a sorpresa dietro la macchina da presa con Che strano chiamarsi Federico. Una lunga assenza dovuta a motivi “psicologici e politici” che non ha però tolto al cineasta il desiderio di raccontare, qui nello specifico il personale legame con l’amico Fellini a vent’anni dalla scomparsa.
Alternando aneddoti a materiale d’archivio in un docu-fiction autobiografico per interposta persona – un narratore diegetico di stampo amarcordiano – il regista si sofferma non tanto sulla carriera del collega, quanto sulla loro amicizia nata alla fine degli anni Quaranta e durata tutta una vita. E come una vita è raccontata, attraverso piccoli tasselli che si giustappongono su una linea temporale scandita da significativi avvenimenti personali: la scoperta di Fellini sul “Marc’Aurelio” da parte dell’allora giovanissimo Scola, la reciproca conoscenza e nascita di un rapporto fatto di racconti, incontri, confidenze e vitellonate, fino alla vittoria dell’Oscar alla carriera nel 1993 che segna la fine di un’epoca e del periodo d’oro del cinema italiano, ma che si fa anche premio simbolico al lato onesto del Paese troppo spesso oscurato dagli incivili eventi coevi. Certo sarebbe facile ridere di un film tanto intimo e personale, calcando magari la mano sui punti deboli o goffi, in primis la ricostruzione dell’ambiente redazionale del giornale satirico, giocato su brevi sketch goliardico-macchiettistici. Ma risulterebbe ingiusto, perché quello di Scola è un rispettabile racconto-confessione, malinconico e nostalgico, estraneo alle ferree norme della narrazione forte.