Teoria dello smontaggio
Quando si parla di montaggio si fa quasi sempre riferimento a quella componente che vede la propria essenzialità nella determinazione del senso. È, lo dicono i maestri sovietici, il rapporto tra inquadrature a conferire allo spettatore le capacità intellettuali, percettive, critiche all’interno dei meccanismi della fruizione.
In tal senso, dedicare uno speciale a Artavadz Pelesjan, significa anzitutto rapportarsi ad un vero e proprio outsider, una sorta di paria che, rompendo definitivamente con la tradizione, decide di pensare ad un cinema che auspica alla dis-giunzione delle inquadrature, in definitivo conflitto con ogni tipologia di cinema “illustrativo”. Film come Il principio (1967), Gli abitanti (1970) e Le stagioni (1975), si pongono candidamente in una condizione quasi imparziale, lavorando, in un tono quasi epico, verso l’indeterminatezza del senso, inafferrabile se non nelle proprie componenti base. È l’immagine a farla da padrone, è il suono (o meglio, la musica) a conferirne la forza, in una retorica del linguaggio audiovisivo che sceglie programmaticamente di fare a meno della parola. È a partire da questo orizzonte che si muove Il silenzio di Pelesjan (2011), un omaggio al cineasta armeno da parte Pietro Marcello, il quale, dopo La bocca del lupo (2009) decide di intraprendere una strada ancor più impervia e di misurarsi con un film ancora più piccolo, ancora più complesso. Qui si cerca, in qualche modo, di tracciare un profilo critico di Pelesjan, ma come farlo se quest’ultimo, in perfetta coerenza con le proprie idee, decide di non parlare? Con le immagini ovviamente: mostrandolo nei rapporti diretti con i luoghi e le persone (i registi Serguei Guerassimov e Elem Klimov su tutti) della sua vita, esibendo spezzoni inediti delle opere e rispettando l’idea base delle sue teorie del montaggio. Ma si sa, il film di Marcello è, anzitutto, un’introduzione e, come tale, pur in una cornice affine all’estetica dell’oggetto di cui tratta, non può prescindere dal commento agiografico, dalla spiegazione, dall’illustrazione documentaristica, dalla parola, in aperto conflitto con quell’auspicio ad un senso dissolto, disgregato, aperto, auspicato dallo stesso Pelesjan. Ma se la parola tradizione implica il verbo tradire, Il silenzio di Pelesjan ha il merito indiscusso di far conoscere un cineasta altrimenti inarrivabile, di lavorare in un terreno di compromesso che permette a noi spettatori di approcciarci ad un cinema difficilmente fruibile, ma che si fonda su un sostrato teorico che pare rivelarsi del tutto attuale.