I fantasmi del palcoscenico
Il secolare quesito sulla vera natura dell’Arte è l’interrogativo lanciato anche dal nono lungometraggio di Ferzan Özpetek che, facendo leva sulle consuetudini del suo cinema (la diversità, la famiglia, la cucina), si inoltra in una commedia rischiosa, gestita con mestiere sui binari dell’intrigo e dell’ironia.
Elio Germano veste i panni di un pasticciere omosessuale che si trasferisce a Roma con il sogno di diventare attore. In breve tempo realizza che la nuova casa è abitata da altri individui, fantasmi di attori imprigionati nel presente. La difficile convivenza si trasforma in amicizia e aiuto reciproco: la bizzarra compagnia teatrale impartisce lezioni al giovane che si prodiga a sua volta per restituire loro la libertà. Özpetek è un regista che conosce i ferri del mestiere: dirige sapientemente il traffico dei personaggi e può scherzare col fuoco nel contaminare i generi, giocando con il giallo e l’horror (Dario Argento docet), malgrado l’azzardo comporti qualche sbavatura (troppo tragica e solenne la figura di Livia Morosini, interpretata da una meravigliosa Anna Proclemer). Le tinte fosche e un po’ luciferine che incupiscono il respiro farsesco concorrono pittoricamente alla confusione dei piani di lettura, creando un groviglio inestricabile di verità e menzogna e sospendendo la visione in un’atmosfera di incredulità. Lo scioglimento dell’intreccio all’insegna di un ritorno all’ordine non sembra risolvere l’enigma sull’essenza della creazione artistica, se essa rifletta la realtà o prevalga la dimensione della finzione. La commozione del protagonista, di fronte alla rassegna conclusiva dei personaggi che guarda al metateatro pirandelliano, alimenta dopotutto il dubbio che l’illusione non sia stata svelata e impone una riflessione sulla magia dello spettacolo. La parola “spettacolo”, imparentata con il termine “spettro”, ha un legame con la verità e implica di conseguenza un guadagno conoscitivo per chi assiste, per colui che guarda. Lo sa bene Amleto che, allertato dal fantasma del padre ucciso, scopre l’autore del delitto attraverso la finzione del teatro. In Magnifica presenza si rimane invece avvinghiati nell’incantesimo: il susseguirsi delle apparizioni getta un’ombra sulla forza rivelatrice di ogni forma di rappresentazione, ridotta, per l’appunto, a pura messa in scena.