SPECIALE SERIE TV
Avere ventanni
«Qualsiasi cosa orribile tu possa dirmi, io l’ho già pensata e detta a me stessa, probabilmente nell’ultima mezzora». Dentro e fuori il testo, Girls si potrebbe riassumere qui, nell’apice del litigio tra la protagonista Hannah e la sua migliore amica Marnie.
La 25enne Lena Dunham, figlia di artisti newyorchesi, già un lungometraggio alle spalle (Tiny Furniture) premiato all’SXSW Festival 2010, durante la messa in onda Usa del suo Girls la scorsa primavera su Hbo s’è sentita accusare di ogni male possibile: razzismo (“non ci sono personaggi di colore!”, “L’unica asiatica è un genio del computer!”), sessismo (“le sue donne sono troppo stereotipate/stupide/inette/sottomesse!”), narcisismo (“gira tutto attorno al suo ombelico!”), classismo (“facile fare i film nel loft di mamma & papà a Tribeca…”), inverosimiglianza (“non è così che vivono le vere ragazze di New York!”). Nel frattempo, settimana dopo settimana per 10 episodi, lei srotolava un campionario di giovinezza desolante, sempre più difficile da guardare. Avere ventanni nella Grande Mela del 2012 (ma anche in provincia: nell’episodio in cui Hannah torna a casa dai genitori sembra di assistere a una nuova versione di Young Adult) significa arrabattarsi e franare rovinosamente a ogni passo, fingere una consapevolezza che non si possiede, aggrapparsi a proiezioni falsificate di se stessi, essere incapaci di vedere gli altri, lagnarsi di tutto e tutti, fare sempre la cosa sbagliata. L’accostamento con Woody Allen è inevitabile (così come quello con Louis C.K.), ma Lena Dunham ingombra lo schermo di uno specifico femminile cui i media (e gli spettatori) non sono abituati. Il suo corpo – ingombrante e imperfetto, ricoperto di tatuaggi fatti a mano – e il suo viso – lucido, struccato o con i residui sciolti di un make up fatto male – sono il primo piano centripeto che attrae rappresentazioni inusuali ma verissime: un sesso non edulcorato e spesso realisticamente imbarazzante, discorsi su mestruazioni, aborti, papilloma virus, e così via. È a partire da qui – dalla messa in quadro di una fisicità anticonvenzionale – che si rivela la portata (vogliamo dirlo?) rivoluzionaria di Girls. Perché tutto il resto, forse, l’abbiamo visto altrove, compresa l’estetica hipster del cinema indipendente americano, ma è proprio grazie all’assenza di vergogna (o al desiderio di combatterla) che Dunham riesce ad essere insieme crudele ed empatica. Le sue quattro protagoniste sono ragazze ontologicamente inadeguate all’esistenza, ma non hanno niente a che vedere con le “damsels in distress” in attesa del principe azzurro e nemmeno con gli antieroi falliti di tanta produzione letteraria e cinematografica. Sono identità in costruzione, potenzialmente orribili (soprattutto perché sempre pronte ad autogiustificarsi, a deresponsabilizzarsi) ma con un’insopprimibile scintilla vitale. Attraversano la landa desertificata del limbo generazionale che hanno ricevuto in eredità: troppe aspettative e zero prospettive, meglio accovacciarsi immobili sul fondo di una stanza, non fare nulla, attendere. Dopo 10 episodi, e tutti gli “ismi” del mondo, in fondo allo specchio dello schermo non possiamo che cominciare a riconoscere qualcosa di noi stessi. E iniziare, freneticamente, a fare il tifo per loro.
Girls [Id., USA 2012], IDEATORE Lena Dunham.
CAST Lena Dunham, Jemima Kirke, Allison Williams, Zosia Mamet.
Commedia/Drammatico, durata 30 minuti (episodio), stagioni 1