Da Hollywood al Sessantotto
In una cittadina della provincia piacentina vive una famiglia medio-borghese composta da una madre non vedente e dai suoi figli Augusto, Leone, Giulia e Alessandro. Il primo ha una buona occupazione e una fidanzata, il secondo soffre di un ritardo mentale, mentre gli altri due conducono una vita vuota e senza scopo per noia e mancanza di stimoli. Alessandro, epilettico e nevrotico, pianifica di uccidere la famiglia.
Nel commentare I pugni in tasca di Marco Bellocchio, i critici del tempo hanno subito riconosciuto l’originalità del film trovando al tempo stesso possibili associazioni e influenze nel Rossellini di Germania anno zero per l’omicidio familiare, in Buñuel per il lato grottesco e antiborghese e persino in autori hollywoodiani come Kazan, Brooks e Penn per la forza della sceneggiatura, come affermò Goffredo Fofi su Positif.
Il raffronto con i registi americani menzionati crea un collegamento anche con il melodramma familiare, sottogenere hollywoodiano che tali autori hanno affrontato con titoli come per esempio La valle dell’Eden, La gatta sul tetto che scotta e, in qualche modo, Anna dei miracoli. Pur appartenendo a contesti produttivi e socioculturali molto differenti (i grandi studios di Hollywood da un lato, un esordio autoprodotto nell’Italia di metà anni Sessanta dall’altro), i mélo citati e il film di Bellocchio hanno in realtà diversi elementi in comune, a cominciare da storie incentrate su famiglie problematiche composte da personaggi frustrati e impulsivi e il ritratto di una provincia gretta, bigotta e soffocante, specchio degli aspetti peggiori della società. Punti tematici e narrativi che sia i mélo hollywoodiani sia l’esordio di Bellocchio mettono in scena con un uso articolato e volutamente claustrofobico degli interni, che diventano delle prigioni più o meno dorate nelle quali covano dispiaceri e avvengono scontri anche violenti. Le analogie sembrano però fermarsi qui, perché Bellocchio firma comunque un’opera molto più feroce e radicale, priva del lato sentimentale e del barocchismo visivo del mélo, e con un personaggio, quello di Alessandro, la cui rabbia non sembra avere delle cause chiare e immediatamente identificabili, come accade invece ai protagonisti dei film di Kazan e Brooks, cui problemi psicologici derivano spesso da rapporti anaffettivi con i genitori, omosessualità latente, senso d’inferiorità, ecc.
Ne I pugni in tasca, la frustrazione di Alessandro è sì probabilmente causata dalla noia e dall’epilessia, ma questo non basta a rendere pienamente comprensibile la sua nevrosi e la sua volontà omicida. Qui i sentimenti e le azioni del protagonista hanno piuttosto una natura nichilista che intende eliminare non solo chiunque ritiene essergli di ostacolo ma anche tutto ciò che c’era prima di lui (significativa la scena del falò) e che gli sta intorno, sfociando così anche nell’autodistruzione e nella pazzia. Non è un caso che Bellocchio ponga uno sguardo sempre distaccato nei confronti del protagonista e stia attento a non far empatizzare il pubblico con lui. Questo perché l’autore sembra interessato a mettere in scena – in modo volutamente eccessivo, grottesco e a tratti disturbante – una rabbia sconfinata e astratta simbolo tanto dell’inquietudine tipica della giovinezza quanto di una generazione, quella del Sessantotto, che pochi anni dopo contesterà il sistema borghese e capitalista, qui rappresentato dalla madre ultracattolica e dal fratello Augusto, figura meschina interessata solo al profitto e al tornaconto personale, in quella che è una raffigurazione cupa dell’italiano medio al tempo della società dei consumi. Tutto ciò in un’opera che, usando in modo personale riferimenti cinematografici anche molto distanti tra loro, ha saputo cogliere gli umori più o meno sotterranei del periodo.
I pugni in tasca