L’arte dell’inclusione
La documentarista Sarah Vos ha un progetto ambizioso e rischioso, ovvero riuscire a smascherare l’ipocrisia e il politicamente scorretto che si nasconde dietro la facciata delle opere d’arte e all’interno dei meccanismi che regolano il museo Stedelijk di Amsterdam.
L’importante struttura museale olandese ha un motto: “Meet the icons of modern art” e la regista con White Balls on Walls, presentato alla XVI edizione del Pordenone Docs Fest, si interroga su quali possano essere appunto le “icone dell’arte moderna”, scoprendo che per lo più sono in realtà rappresentate da uomini di razza bianca, ostracizzando così artisti donne e di colore.
Rein Wolfs, direttore dello Stedelijk, è intenzionato insieme al suo staff a cambiare le sorti dell’arte contemporanea, portandola a una forma di inclusione che abbatta i rigidi paletti di genere e di razza. Questa però non si rivela un’impresa facile, come documenta minuziosamente il lavoro della Vos, la quale dal 2019 fino al 2022 ha ripreso tutto quello che avviene dietro le quinte del museo, cercando di raccontare in maniera lucida e analitica questa tortuosa filiera che dovrebbe portare a una forma di accoglimento e a una maggiore pluralità artistica. Appare illuminante l’analisi delle opere dei maestri dell’espressionismo pittorico tedesco Kirchner e Nolde, autori di una serie di opere di matrice colonialista, dalle quali emerge appunto il concetto di affermazione della superiorità europea. Inoltre Kircher è stato persino tacciato di pedofilia, perversione che si affaccia in un suo noto ritratto. La storia presentata è senza dubbio degna di nota ed eticamente lodevole, però la Vos non riesce sempre ad imprimere al racconto una certa tensione morale che lo avrebbe reso maggiormente accattivante, limitandosi a una pulizia formale nelle riprese atte a sottolineare le forme architettoniche della struttura e il suo nitore asettico.
White Balls on Walls, nel suo lento viaggio verso una (im)possibile inclusione artistica, mescola alle riprese più statiche, realizzate all’interno dell’edificio, qualche ripresa esterna come le manifestazioni indette dalle Guerrilla Girl, gruppo anonimo di artiste femministe newyorkesi, dedite alla lotta contro il sessismo e il razzismo nel mondo dell’arte contemporanea.
Rein Wolfs viene spesso ripreso durante incontri di lavoro, sia in presenza che da remoto, altre volte mostrato in campo lungo o lunghissimo, quasi a perdersi tra le linee geometriche e le superfici lucide del museo, come uomo sconfitto dall’arte stessa. Un’arte poco inclusiva e democratica. Sottolinea molto bene questo stato d’animo di Wolfs l’inquadratura dove lui appare racchiuso dalla cornice oblunga di una finestra del museo.
White Balls on Walls è un film fatto di spazi interni e chiusi, in grado di sottolineare i rigidi paletti di un’arte che invece di farsi opera aperta costringe nelle proprie pastoie il senso di libertà creativa e rappresentativa. L’occhio della Vos cerca di raccontare i fatti e di cogliere la realtà nella sua essenza, ma spesso manca l’incisività di una forma in grado di farsi stile e linguaggio documentario, restando più che altro un reportage giornalistico un po’ anonimo.
Il coraggioso lavoro della documentarista olandese è un’indagine sincera e diretta ma anche un’opera in cerca di un’autentica forza stilistica.