Ragazzi dentro
Dopo aver recitato come attore nelle commedie dei telefoni bianchi, sotto la guida di Mario Camerini, Vittorio De Sica inizia a intraprendere la carriera registica realizzando commedie come Maddalena… zero in condotta (1940) e Teresa Venerdì (1941), in cui sotto l’apparente leggerezza è già presente una profonda riflessione sulla condizione dei giovani, tema che ha poi ampliato e approfondito nella successiva produzione neorealista, in collaborazione con lo sceneggiatore Cesare Zavattini.
Sciuscià (1946) esce in contemporanea con Paisà (1946) di Roberto Rossellini, due manifesti del neonato movimento neorealista e ambedue scelgono come titolo un’espressione dialettale napoletana. L’utilizzo del dialetto entra così nel cinema di De Sica proprio con Sciuscià (storpiatura napoletana dall’americano shoes-shine ovvero lucida scarpe), che rappresenta la sua prima vera opera neorealista dopo un film-ponte come I bambini ci guardano (1943).
Il precedente lavoro di De Sica è un film di passaggio, perché presenta ancora molti elementi finzionali legati al melodramma di matrice letteraria e l’utilizzo della lingua italiana, mentre qui gli interpreti sono quasi tutti non professionisti (tra cui un esordiente Franco Interlenghi) e si esprimono in dialetto (romanesco e napoletano), inseriti in una struttura narrativa che supera i motivi romanzeschi per farsi cinema-verità. Protagonisti della vicenda Giuseppe e Pasquale, una coppia di ragazzini che nella Roma dell’immediato dopoguerra si arrangia a lucidare le scarpe e a rivendere roba rubata, fino a che non finiscono in riformatorio, esperienza che cambierà definitivamente l’approccio di entrambi alla vita e al mondo degli adulti. Con Sciuscià De Sica prosegue la sua apologia al mondo dell’infanzia, descrivendo in parallelo quello degli adulti come crudele e a tratti persino ridicolo nei suoi atteggiamenti bassi e meschini e il carcere viene rappresentato quale doppio della società, in grado di aumentare a livello esponenziale i meccanismi di violenza e sopraffazione, come nota giustamente Gian Piero Brunetta nel suo volume Il cinema neorealista italiano.
Sciuscià pur presentando una struttura narrativa ben delineata, che si muove simbolicamente sulla linea del viaggio senza ritorno verso l’inferno (del carcere e della vita adulta), possiede una forte libertà di azione da parte dei personaggi che la muovono. Giuseppe e Pasquale, ma anche gli altri ragazzi conosciuti in riformatorio, non restano così ingabbiati nelle maglie della narrazione di genere, come il protagonista di I bambini ci guardano, riuscendo ad aumentare il senso di documentazione del reale che raggiungerà il vertice delle capacità narrative ed espressive di De Sica e Zavattini nel successivo Ladri di biciclette (1948). Questo è uno dei motivi per considerarlo un autentico manifesto neorealista, che però alla crudezza della denuncia sociale (i maltrattamenti in carcere, come le percosse subite dal personaggio di Interlenghi) affianca elementi poetico-fiabeschi, che raggiungono l’apice nella trovata del cavallo. Il cavallo acquistato da Giuseppe e Pasquale è il simbolo di un sogno di libertà che per loro resterà irraggiungibile, confermato dal finale notturno. Quando la tragedia raggiunge il suo climax, l’animale si allontana libero, come un ideale che lentamente scompare.