Il principe, l’idiota e il regista
“Una fantasia per attori, macchina da presa e video registratore”. In questo modo, Jean-Luc Godard ha definito Cura la tua destra (Soigne ta droite), uno dei suoi film meno amati e più curiosi, uno di quelli in cui il confine tra l’elucubrazione intellettuale e la farneticazione dadaista e provocatoria è maggiormente sabotato, messo alla prova dal suo stesso autore.
In principio fu Tati, che nella seconda metà degli anni ’30 realizzò un cortometraggio dal titolo Cura il tuo sinistro nel quale interpretava un aspirante pugile.
Cinquant’anni dopo, nel 1987, Godard ribalta il lato e l’interpretazione pugilistica del titolo per raccogliere una serie di sketch intorno a situazioni a lui congeniali: un duo new wave (Les Rita Mitsouko) che sta componendo e registrando un disco; un uomo che come Candido cerca la società ideale e pensa di essere nato sul pianeta sbagliato; dei viaggiatori che cercano di tornare a casa. A legare gli uni agli altri, un regista (lo stesso Godard) che qualcuno chiama l’Idiota, altri il Principe, il quale pizze in braccio gira alla ricerca di compratori e distributori del suo film. Cura la tua destra è il cinema burlesco secondo Godard, un regista che ha spesso solcato le coste dell’ironia e dell’umorismo, persino quando l’ideologia predominava su ogni altro aspetto dei suoi film, che ha vissuto la pratica cinematografica come un gioco a prescindere dalla seriosità di ciò che stava mettendo in scena, ma che qui ha deciso, proprio a partire dall’ispirazione di Tati, di affrontare di petto il suo insospettabile lato comico: vederlo fare facce e gesti come Peter Sellers o non riuscire a entrare in un’auto come un eroe delle comiche slapstick è sicuramente uno shock per chi crede di conoscere l’uomo e l’artista, e forse è questo che ha reso il film di difficile accettazione per la critica (eppure, nell’anno dell’uscita vinse il prestigioso premio Delluc come miglior film francese dell’anno, pari merito con Arrivederci ragazzi di Louis Malle), perché pone un filtro distorcente di fronte a tutto ciò che nel film vediamo e ascoltiamo.
Le parole, le riflessioni, gli aforismi e le sentenze che i personaggi dicono nel corso del film sono raramente frasi “originali”, pensieri di chi sta in scena, ma spesso sono frasi fatte, citazioni, parafrasi secondo un metodo tipicamente godardiano che arriverà al punto di non ritorno in Nouvelle vague (1990), in cui chiunque parla attraverso le frasi di qualcun altro e, soprattutto, è visto attraverso gli occhi dell’Idiota e dell’Individuo (Jacques Villeret), due personaggi molto tatiesque che cercano di solcare un mondo travolto dalla stupidità e dalla mancanza di senso, che da quell’illogicità cercano di fuggire o adattarsi, per cui ciò che di pensoso ascoltiamo o guardiamo perde di spessore a contatto con la deflagrazione del comico; solo la musica cerca un sospiro di concretezza e di vita, ma coerentemente Godard la usa quasi sempre a sproposito, sottolineando una volta ancora l’impossibilità di prendersi sul serio in un mondo simile. Un divertissement serissimo che oltre a Tati sembra un omaggio affettuoso, e pure un po’ beffardo, a Luc Moullet, il critico-regista che proprio Godard rese cineasta convincendolo nel ’60 a realizzare il suo primo cortometraggio (Una bistecca troppo cotta), trasformando il gesto comico in atto saggistico.