L’autunno del medioevo
Era davvero parecchio che il cinema italiano non riprendeva a lavorare sull’immaginario medioevale straccione e fanta-storico di ispirazione letteraria e Il pataffio di Francesco Lagi (tratto da Luigi Malerba) spunta fuori come uno strano oggetto collocato malamente in sala verso la fine di agosto, dopo essere stato presentato in anteprima al Festival di Locarno.
Quando si parla di Medioevo all’interno della produzione cinematografica italiana è inevitabile citare l’immortale capolavoro di Mario Monicelli, ma L’armata Brancaleone (1966), ispirato anch’esso alle fantasie letterarie di Malerba, è decisamente distante dalla rielaborazione cinematografica di Lagi di cui riecheggia solamente il latino-maccheronico-romanesco tra l’altro già presente nel romanzo di origine, il quale abbonda di invenzioni linguistiche come i pittoreschi insulti gridati da sotto il castello (Cagasotto! Budelloni! Panciaculi! Merdaccioli! Pipparoli!).
Il pataffio è più vicino al Medioevo contadino di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984) e alle miserie umane presenti in Storie dell’anno Mille (1971) ma caricato di un senso del tragico che spinge i personaggi a cercare la propria fine attraverso un percorso circoscritto tra le mura di un castello diroccato. La fame e il desiderio sessuale che sono due archetipi sia del comico che di un certo medioevo cinematografico (decamerotici in primis), qui vengono svuotati da ogni senso e ambedue gli istinti e si trasformano in pure azioni meccaniche private di qualsiasi significato biologico. La fame diventa una condizione normale specialmente per il villano Migone (Valerio Mastandrea) il quale viene corrotto tramite un banchetto dal nobile Berlocchio (Lino Musella). Il lauto banchetto, però, non instaura tra i due nessun arguto rapporto (come avveniva tra Bertoldo e re Alboino) ma solamente una ricerca (da parte del povero) di autodistruzione. Lo stesso vale per il sesso che quando non viene relegato al fuori campo diventa puro automatismo passivo con epilogo luttuoso, come l’amplesso tra donna Bernarda (Viviana Cangiano) e frate Cappuccio (Alessandro Gassman).
Il pataffio (sinonimo desueto di epitaffio) è un racconto tragico-satirico sulla dissoluzione del potere in cui qualsiasi azione innesca una pura riflessione sulla caducità della vita, con un senso del ridicolo congelato all’interno di uno spazio scenico catacombale che riporta a Roy Anderson e a Ciprì & Maresco. Non mancano incursioni di scurrilità fisiologica (tanto abusata nel filone boccaccesco) ma (im)piegata come riflessione sulla morte, sulla divaricazione tra corpo e spirito (notevole la battuta sulla flatulenza scambiata per anima) spinta verso un cul de sac che porta solamente al nulla.
Il pataffio è un prodotto decisamente anomalo e coraggioso che tra le varie influenze letterarie conta persino Calvino (Il cavaliere inesistente) e mette insieme un cast variegato di interpreti azzeccati (Musella e Tirabassi su tutti), le cui interpretazioni vengono avvolte dalle ricercate composizioni di Stefano Bollani, sospese tra sacro e profano. Operazione intellettuale e dichiaratamente letteraria che può essere superficialmente scambiata per un recupero (fuori tempo massimo) delle mode brancaleonesche.