Una questione di famiglie
I fratelli De Filippo vivono all’ombra del padre Eduardo Scarpetta, che si è sempre rifiutato di riconoscerli pur non facendo mai mancare loro nulla. Divenuti adulti, i tre sentono il bisogno di emanciparsi, soprattutto Eduardo che vive come una gabbia la tradizione farsesca che la compagnia Scarpetta porta avanti dal padre al figlio Vincenzo: il suo sogno è quello di fondarne una propria assieme ai fratelli, per poter rappresentare commedie originali, che guardano a un altro modo di fare teatro. Un sogno che metterà i fratelli e le diverse famiglie in conflitto tra loro.
Non è facile parlare de I fratelli De Filippo prescindendo dal confronto con Qui rido io, il film di Mario Martone. Per fortuna il regista Sergio Rubini sceglie una via narrativa e un registro del tutto complementari a quelli del film con Toni Servillo:
qui il punto di vista prescelto per raccontare il teatro napoletano di inizio Novecento è quello dei De Filippo, più precisamente – ed è qui l’originalità del film – di Peppino, il più popolare dei tre, quello per cui la risata del pubblico era la cosa più importante, quindi l’elemento di contrasto con la spinta propulsiva e innovatrice di Eduardo. Rubini e gli sceneggiatori decidono di raccontare il momento in cui i tre fratelli diventano artisticamente adulti, ossia quando decidono di sottrarsi all’egida de loro padre segreto e della sua accentrante famiglia, in modo che tutto il film sia costruito lungo i rivoli familiari che nutrono, così come intossicano, la vena artistica dei protagonisti. Rubini parte dalla figura del capocomico – interpretato da Giancarlo Giannini – e da lì costruisce una narrazione sempre più ampia, che diventa quasi corale, a dare spazio a tutta una serie di figure apparentemente secondarie e che invece, nell’evoluzione dei fratelli, sono fondamentali.
Una famiglia è una compagnia teatrale, lo ha sempre creduto Eduardo, lo sottolinea il film fin dalla prima sequenza, in cui i De Filippo allestiscono la cena di Natale in casa Cupiello dietro lo schermo di un cinema che proietta Nessun uomo le appartiene con Clark Gable; quindi, nonostante la coralità che rende ricco il film e che Rubini da attore gestisce valorizzando tutte le interpretazioni, il cuore dell’opera è dentro la natura teatrale di quella famiglia, nella rivalità e differenza di vedute tra i due maschi di casa: mentre Peppino cercherà sempre il suono confortante della risata altrui, prima separandosi dalla compagnia e aprendone una propria, poi al cinema divenendo immortale assieme a Totò, Eduardo avrà voglia di uscire dalla gabbia della farsa, dai trucchi per far ridere il pubblico, vorrà confrontarsi con il Grande Teatro, con l’avanguardia di Pirandello e soprattutto con la verità, con la realtà quotidiana da spiare e poi da mettere in scena precorrendo il neorealismo. Questo percorso traspare anche nello stile del film che comincia con un’illuminazione molto ampia, diretta, “facile”, e con un tono narrativo e recitativo preso in prestito dalla commedia dell’arte, e poi poco a poco si inspessisce, le immagini diventano più complesse ed elaborate, i personaggi mettono in mostra le loro ombre fino ad arrivare a un finale molto bello, che fa onore a Giogiò Franchini, autore di un montaggio che mescola linee narrative e piani temporali. I fratelli De Filippo, tanto per ragioni produttive quanto artistiche, sceglie di muoversi sul crinale fra tre linguaggi diversi, il cinema, la tv e ovviamente il teatro, di usarli per poter arrivare al pubblico più ampio e allo stesso tempo per poter ragione sul modo in cui si influenzano e si sono sempre influenzati (il teatro dietro il cinema, ma anche la tv che diventa teatro nella serie di memorabili riprese targate Rai degli anni Settanta). È una scelta che rispetta lo spettatore, e ancor più un omaggio allo spirito e le opere di tre attori e autori che hanno cambiato per sempre il modo stesso di concepire il palcoscenico.