Elogio (funebre) della parodia
Quella del capocomico Eduardo Scarpetta è stata una vita dedicata al palcoscenico, che gli ha portato successi ma anche controversie. Padre di diversi figli illegittimi, Scarpetta crea il moderno teatro napoletano e una famiglia allargata, un magnifico intreccio di energie e talento che cresce sul palcoscenico e incrementa nel talamo. Mattatore che non conosce limiti e creanza, scrive Il figlio di Iorio per burlarsi di D’Annunzio (La figlia di Iorio) ma il poeta non apprezza e lo querela. Sulla scena del tribunale dovrà vedersela con giudici e detrattori. Parodia o plagio?
Se Il sindaco del Rione Sanità (2019) era un film di impostazione teatrale, tratto da una nota pièce di Eduardo De Filippo, Qui rido io (2021) è principalmente un film sul teatro dedicato alla figura di Eduardo Scarpetta, capocomico e padre naturale dei fratelli De Filippo. Ambedue presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, il primo è un film chiuso, circoscritto all’interno di spazi delimitati mentre il secondo è un film aperto, un grande affresco barocco sulla Napoli dei primi anni del Novecento, dove il palcoscenico diventa il doppio parodico della società dell’epoca.
Qui rido io è una profonda riflessione sul comico e specificatamente sull’arte della parodia esplorata nei suoi meccanismi narrativi, recitativi, scenici e persino legali. Nella seconda parte del film si apre una questione sui limiti permessi dalla legge alla forma parodica per non diventare contraffazione di un testo già esistente e questo avviene quando Scarpetta decide di realizzare Il figlio di Iorio. Il processo finale lo vedrà recitare alcuni versi del suo lavoro trasformando persino il tribunale in un luogo di farsa. Martone vuole celebrare attraverso ogni inquadratura, dettaglio o movimento di macchina la sovranità triviale di Scarpetta, guitto sulla scena e nella vita, il quale impone a sé stesso e alla propria famiglia di filtrare l’esistenza attraverso la lente deformante del comico, come ribaltamento e sublimazione di drammi e patimenti reali. Toni Servillo porta alle estreme conseguenze il proprio gigionismo fisiognomico creando una perfetta aderenza con il personaggio interpretato e al tempo stesso esaltando la maschera universale del clown, in una sovrapposizione continua di riso e tristezza. A questo proposito appare sintomatica la sequenza in cui Scarpetta assiste a La figlia di Iorio, immaginandosi al contempo la parodia e soffocando le risate durante l’austera messa in scena. Viene così espressa in maniera esemplare la dicotomia fra tragico e comico, in cui il secondo carattere dovrebbe esaltare il primo ma a volte, come in questo caso, tende ad eliminarlo sostituendovisi.
Qui rido io non è solamente un’acuta riflessione sulla parodia ma anche, e soprattutto, il suo degno funerale segnando il lento declino della maschera comica di Don Felice Sciosciammocca in un momento in cui nuovi autori, come Salvatore Di Giacomo, rappresentavano un superamento artistico rispetto ai cliché di una farsa in via di estinzione. Mario Martone compie un’operazione analoga a quella di Charlie Chaplin in Luci della ribalta (1952), costruendo un potente melodramma famigliare per parlare di una certa arte comica e del suo tramonto, come appunto Chaplin che realizzò un melodramma sentimentale come elegia delle pantomime clownesche. A un certo punto del film, Martone esemplifica la fine della farsa scarpettiana, quando il commediografo immagina (sotto forma di incubo) un pulcinella morente con i suoi tratti. Come è giunta una fine per la maschera di Acerra creata da Antonio Petito (nella forma in cui ci è nota) è arrivata anche per Don Felice Sciosciammocca, a cui hanno fatto seguito i fratelli De Filippo dando vita a una nuova era del teatro comico partenopeo.