A child never forgets its parents (Tokyo Godfathers)
Mentre la carcassa dell’America viene circondata da avvoltoi che commentano l’ennesimo massacro scolastico e il futuro distopico de Il racconto dell’ancella non sembra più così assurdo (il diritto sacrosanto all’aborto), a Cannes, in concorso, plana come una carezza l’ultimo film di Hirokazu Kore’eda, Broker.
Dopo Un affare di famiglia (Palma d’Oro 2018), il regista giapponese si addentra, di nuovo, nell’universo celestiale e infernale che è la famiglia e tra i personaggi che la compongono. Difficile trovare oggi un autore che guarda ai disadattati, agli underdogs, con uno sguardo più benevolo di Kore’eda.
Con Broker abbiamo due ‘trafficanti’ che piazzano i bambini abbandonati nelle baby box presso famiglie benestanti o chiunque possa permettersi un bambino (dove i maschi sono più cari delle femmine). Abbiamo due agenti di polizia pronte a cogliere i criminali in flagranza di reato, e una madre che, a differenza della stragrande maggioranza, si pente (lo fa 1 su 40) e torna a cercare il suo bambino.
Broker non è solo una storia di rimpiattini, di rifarsi sugli altri, o di concetto di famiglia che esula dal semplice legame di sangue, ma è un vero e proprio road movie che pare uscito dagli anni ’80, che ha il calore di quelle storie che non ti sconvolgono la vita ma ti lasciano l’allegria e la malinconia dopo una giornata passata coi genitori.
Una delle domande di Broker sembra essere: si può diventare genitori responsabili se si è ancora figli?
So-young (Lee-Ji Eun, K-pop star in Corea del Sud) è giovane prostituta che si sente inadatta a crescere Woo Sung; Sang-Hyun (l’immenso Song Kang-ho che avete conosciuto in Parasite) che gestisce una lavanderia ed è ricattato dalla mafia locale ha una figlia che non vede mai e che sembra considerarlo tutto fuorché una figura di riferimento; Dong-soo (Gang Dong-won) da orfano a ‘broker di bambini’ di notte e dipendente di un centro per bimbi abbandonati di giorno, un giovane disilluso che non ha mai perdonato sua madre; e tra di loro un bambino di sette anni, Hae Jin, che ha un disperato bisogno di essere adottato e segue i tre spostati alla ricerca di una coppia di compratori.
Broker non ha vinto nulla a Cannes, se non il premio come migliore attore per Song Kang-ho (meritato), ma come e più di Un affare di famiglia, ha l’equilibrio e il tepore dei film che rimangono sotto pelle al pubblico. Hirokazu Kore’eda si è preparato a lungo, tramite i racconti degli orfani, per girare un film che fosse ‘una preghiera’, un’opera per questi ragazzi dimenticati dal mondo che si chiedono, costantemente, se il solo fatto di nascere sia stato o meno un errore.
Ma è anche un j’accuse nei confronti dell’enorme e stupida burocrazia coreana (e non è un problema solo loro) che impedisce la costruzione di vere famiglie; di coppie costrette a rivolgersi al mercato nero; di tanti e troppi bambini abbandonati a un destino pieno di traumi, dimostrando, ancora una volta, la totale incapacità delle frange più reazionarie di (in alcuni casi) ovviare all’aborto se solo si sfoltisse l’iter per le adozioni. Broker è la risposta al dubbio esistenziale di quei bambini, o per dirla con una delle battute del film: “Grazie per essere nato”, e questo vale per ognuno di noi.