Rimasterizzare lo sguardo
Si parla di storia vista dal buco della serratura, quando gli storici o i narratori si impegnano a raccontare i gossip, prevalentemente pruriginosi, dei grandi personaggi del passato. Ma se sono proprio i personaggi in questione a lasciare aperte le porte invitando gli altri a spiarli? È un po’ la sensazione che si ha guardando The Beatles: Get Back, la miniserie documentaria targata Disney+ che mostra il mese di gennaio 1969, quando i Beatles composero, incisero ed eseguirono dal vivo su un tetto – la loro ultima esibizione dal vivo – quello che poi sarebbe stato il loro ultimo disco, Let It Be (sebbene dopo di allora incisero Abbey Road che però venne distribuito prima).
Peter Jackson, mente alla testa del progetto, lo ha definito “un documentario su un documentario” perché i tre episodi – per un totale di quasi 8 ore – partono dalle 56 ore di video e 140 di audio, di cui quasi tutto inedito, che Micheal Lindsay-Hogg girò proprio quell’anno e che finirono in Let It Be, documentario che accompagnava l’uscita dell’album e che si concentrava sul celeberrimo concerto.
Jackson allora, col supporto di Apple Corps. e Disney si immerge nel materiale con il montatore Jabez Olssen e decide di raccontare quei trenta giorni in bilico sull’abisso, in cui il gruppo comincia a mostrare i segni che lo portarono allo scioglimento e il contrasto di questi segni con la forza creativa che li portò a realizzare un evento storico in 22 giorni, durante i quali gli abbandoni, le difficoltà e gli scogli punteggiarono una situazione artisticamente inusuale e vulcanica. In quel vulcano Lindsay-Hogg ci si buttò e a quel tour de force Jackson rende merito soffermandosi sul lavoro degli operatori, dei tecnici degli studi di registrazione, dei fonici e dei produttori che permisero ai Fab Four di avere un flusso di lavoro ininterrotto (fu uno di loro a suggerire di suonare sul tetto); un flusso, che Jackson segue ipnotizzato, mostrando i sussulti, le pause e le impasse, il fertile cazzeggio da cui nascono idee di arrangiamento e composizione, il modo di comporre e lavorare e le differenti vedute. The Beatles: Get Back diventa così uno dei più imponenti lavori sulla definizione e l’analisi della creatività artistica e dei metodi di lavoro, che mostra come poche altre opere l’arte nel suo farsi, la creazione come pratica meticolosa di messa a frutto più che come gesto improvviso e ispirato.
Questo approccio Jackson lo segue cercando un rapporto con lo spettatore diversissimo dalle molti miniserie documentarie che hanno trovato la loro fortuna sulle piattaforme streaming: al ritmo incalzante e alle narrazioni appassionanti sceglie il passo del visitatore, che si gode lo spettacolo, che passa decine di minuti a bearsi di ciò che gli è stato concesso, il privilegio di vedere. Quel visitatore però, sa anche che Paul, John, George e Ringo gli hanno concesso un ulteriore beneficio, quello di poter indagare con lo sguardo e l’udito dentro le loro vite, i rapporti personali e professionali, il privato che entra e forse incrina il pubblico: di quel beneficio, Jackson ne fa uso sapiente e malizioso, indugia, titilla lo spettatore che brama il pettegolezzo ma sa ricondurlo al progetto generale (d’altronde, la serie è prodotta da McCartney e Starr assieme a Yoko Ono e Olivia Trinidad Arias, vedove dei defunti Lennon e Harrison), spiando i quattro anche quando pensano di non avere le cineprese puntate addosso, per esempio recuperando l’audio di un microfono nascosto, e sa costruire un racconto con le sue svolte, grazie all’apporto di Olssen, proprio in virtù di un sottilissimo lavoro sul tempo e lo spazio, anche quello filmico con le riprese del concerto che dividono e allargano l’immagine fino alle dimensioni di un IMAX.
È un documentario su un documentario, ma anche uno show su uno dei più grandi show della musica pop, è un monumento a una band in cui il limite tra ufficiale e ufficioso è continuamente messo in discussione. Come ha scritto sul Post lo studioso dei Beatles Leonardo Tondelli: “Godetevi tutto: il discorso, il litigio, e soprattutto la canzone – ma non credeteci troppo. Un reality non è la realtà, anche se ci suonano i Beatles.”