Il paradiso consiste nel liberarsi dal potere, nell’acquisire la libertà interiore, libertà dal condizionamento (William Burroughs)
Cosa succede se si prova a fare storiografia su una delle pagine più vergognose d’Italia? Ero in guerra ma non lo sapevo, ultimo film di Fabio Resinaro, racconta uno dei tanti (e troppi) fatti di cronaca appartenenti agli anni di piombo.
Pierluigi Torregiani, gioielliere milanese, si ritrova nel mezzo di una rapina durante una cena con amici e nella colluttazione con i malviventi partono dei colpi di pistola che uccidono uno dei rapinatori e un altro cliente. Da quel giorno, viene bollato come “sceriffo” e “giustiziere” dalla stampa e diventa un bersaglio per i P.A.C. (Proletari Armati per il Comunismo), l’emblema di tutti i mali della società provocati da una casta da eliminare: la borghesia. Ero in guerra ma non lo sapevo, si avvale anche del libro scritto da uno dei figli di Pierluigi, Alberto, rimasto paralizzato per un colpo partito dalla pistola del padre durante il disperato tentativo di difendersi dai suoi killer. Non è uno spoiler ma è solo la storia del nostro paese che si racconta da sola e, fin dalle prime battute, dal monologo del gioielliere – interpretato dal bravo Francesco Montanari – capiamo che certe persone sono segnate, vivono con una condanna che esibiscono sulla fronte.
Il tempo è il protagonista su cui il film si sviluppa, il tempo in relazione alla Storia e su come ogni azione che ci devia, anche di un grado dal nostro destino, non sia altro che un momentaneo inceppo nell’ingranaggio dell’esistenza. Resinaro ci mostra una famiglia normale, neanche troppo consapevole dei propri privilegi che sono stati acquisiti col duro lavoro: la coppia Torregiani ha adottato tre figli, visti come vero Deus Ex Machina durante il ricovero dell’uomo per un tumore ai polmoni e la quotidianità procede con la stessa precisione degli orologi meccanici su cui lavora anche a casa. Una quotidianità che viene stravolta e si sgretola anche per mano di Torregiani stesso che rifiuta, ma è costretto ad accettare, la protezione della polizia. C’è molta più anarchia nello sforzo di Torregiani nel mantenere la propria esistenza libera da condizionamenti, che in Cesare Battisti, che fu anche il mandante dell’omicidio. Ma chi ha davvero le mani sporche di sangue? I media? Il tempo? I terroristi? Tutti, ma se l’uomo può proteggersi (debolmente) dai media con una rettifica, dai terroristi con una scorta, è nudo, però, di fronte al tempo. Pierluigi è un uomo morto, sa di esserlo, ma decide lui come arrivare a quel finale già scritto. E sono questi i momenti dove il film è meno didascalico ma più vero e sofferto, come un uomo normale quando va incontro a un destino più grande di lui. Nelle ultime battute sembra sollevato, accetta il suo status di bersaglio, con la stessa leggerezza con cui si abbraccia la morte come una backdoor dalla follia della vita.
Ciò che non convince del tutto, però, è la linea timida portata avanti lungo il film: se vogliamo riabilitare agli occhi del pubblico, agli occhi della storia, la figura di Torregiani e di altri piccolo-medio-alto borghese come lui, allora si deve avere il coraggio di una forte presa di posizione. Avendo Luca Barbareschi alla produzione ci si aspettava uno schiaffo in faccia (soprattutto ai giornalisti), per questo Ero in guerra ma non lo sapevo, nonostante Montanari, è un’occasione mancata di raccontare la verità senza moralismi, senza j’accuse incendiari; di servire i fatti con tutte le loro ambiguità o, per dirla con Cesare Battisti quando venne catturato nel 2019 dopo trent’anni di latitanza: “Non sono mai stato vittima di ingiustizia e ho preso in giro tutti quelli che mi hanno aiutato. Ad alcuni di loro non c’è neanche stato bisogno di mentire”.