La shrug emoji di Macbeth
È difficile, forse impossibile, avere un approccio veramente originale a un testo che ha più di quattro secoli e che è uno dei pilastri della letteratura anglofona come Macbeth. A vedere i risultati (e ad essere un po’ infami) c’è da chiedersi se Joel Coen, alla prima prova senza il fratello Ethan al suo fianco, non abbia fatto il volo di Icaro.
In realtà, Macbeth non è neanche lontanamente un brutto film, ma non riesce a legare in modo convincente gli ottimi elementi di cui è composto.
Tra gli aspetti più interessanti c’è la scelta dei veterani Denzel Washington e Frances McDormand nei panni di Lord e Lady Macbeth; il fatto che i due siano più attempati degli attori scelti normalmente (basti pensare all’adattamento cinematografico più recente, dove erano Michael Fassbender e Marion Cotillard), e quindi che non possano avere figli a cui dare in eredità il trono conteso, mette ancora più nitidamente a fuoco la follia della sete di potere al centro della tragedia.
È ineccepibile anche la messa in scena: Coen, affiancato dal set designer Stefan Dechant, crea ambienti e panorami irrealistici, che si intendono più come scenografie teatrali che come veri spazi, e che vengono fotografati da Bruno Delbonnel in un bianco e nero pieno di ombre angoscianti. Il palazzo di Macbeth è un labirinto di calce bianca, il bosco l’ambientazione di una fiaba inquietante.
Mentre da un lato gli attori si attengono religiosamente al testo shakespeariano, dall’altro li ascoltiamo, con accenti diversi (britannico, irlandese, statunitense, ecc.), “rompere” il pentametro giambico e parlare in maniera naturale, per quanto l’inglese del diciassettesimo secolo in bocca a una persona del ventunesimo lo permetta.
Ad ogni modo, mentre gli attori di questo lato della manica vanno filati, sono i due protagonisti – Washington e McDormand – a sembrare quasi troppo riverenti verso il materiale originale; finiscono per borbottare attraverso i monologhi più famosi della storia, e a sembrare impietriti per scene intere. Rimangono impresse invece le performance di Alex Hassell, ipnotico e ambiguo nei panni del nobile Ross, e di Kathryn Hunter, eccezionale e perturbante nel ruolo delle tre streghe, sicuramente l’aspetto più geniale del film. Non è un caso, forse, che entrambi siano attori di lunga esperienza shakespeariana.
È un peccato che un film che in teoria potrebbe funzionare perfettamente si incagli invece nel ritmo narrativo, al punto da risultare ostico e – oso dirlo? – noioso, nonostante gli abbondanti tagli al testo che dovrebbero lasciarci con le parti salienti di una storia già di per sé piuttosto appassionante.
In conclusione, l’impressione è che sia davanti che dietro la telecamera ci siano persone terrorizzate di maneggiare Shakespeare. È vero che le scelte sia visive che di recitazione cercano di staccarsi dal canone ma il risultato è un film anodino, girato in bianco e nero ma in fondo semplicemente grigio.