Un nuovo esercizio di stile
Alla morte del direttore del giornale The French Dispatch, la redazione prepara un numero d’addio che comprende i tre migliori articoli mai pubblicati: un assassino che in carcere diviene artista, una rivolta studentesca e il rapimento di un bambino risolto grazie a un famoso chef. È questa la trama del nuovo film di Wes Anderson, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun.
La prima storia parla di arte e passione. La vicenda è molto più introspettiva di quanto possa sembrare a un’osservazione superficiale e il motivo della solitudine, caro ad Anderson, diviene il tratto distintivo della psiche dei personaggi.
La seconda storia è forse la più interessante: Anderson crea per la prima volta nella sua carriera la possibilità di essere esplicitamente politico e tuttavia decide di non coglierla. Rimane il conflitto generazionale, elemento inevitabile persino per Anderson. Per il resto, il singolare Sessantotto apolitico del regista non fa altro che mettere in luce una gioventù irrequieta per cui l’amore vale più di slogan, contestazioni, libretti rossi. E nel far questo Anderson è più vicino alla realtà di oggi di quanto non sembri.
L’ultima storia narra del rapimento del figlio di un commissario di polizia, che avviene durante una cena preparata del celebre chef Nescaffier. Emerge la centralità del cibo non solo come fonte di nutrimento e di piacere, ma anche come elemento estetico e risolutivo.
Come tutti i film di Anderson anche questo presenta una cura maniacale per i dettagli, una simmetria esasperata e un’estetica retrò. A far discutere sono però le innovazioni apportate. Ogni suo film, infatti, soleva basarsi su una precisa e circoscritta palette di colori, che ricorrevano tanto nei costumi quanto nella scenografia. The French Dispatch è caratterizzato invece da una maggiore eterogeneità cromatica, oltre che dall’alternarsi del bianco e nero con il colore. Questa scelta permette di focalizzare l’attenzione su scene che vengono portate fuori dal tempo della storia, sospese in un limbo grigio in cui bisogna osservare i corpi e i gesti più che l’azione in sé. Azione che peraltro, rispetto agli standard andersoniani, è incredibilmente dinamica. Basti pensare a The Royal Tenenbaums, che riesce a essere deliziosamente statico pur raccontando una saga familiare.
Non mancano le citazioni: l’alternarsi di storie diverse è, per ammissione del regista stesso, un omaggio alla tradizione del cinema italiano di Fellini, Visconti e Pasolini; si colgono suggestioni di Truffaut e Godard, a cui non si può non pensare seguendo la vicenda delle agitazioni studentesche.
Ma soprattutto, con un certo gusto autocelebrativo in cui Anderson si crogiola da anni, vi sono numerosi richiami ai suoi film precedenti. I complicati rapporti relazionali dei suoi personaggi ricordano quelli dei Tenenbaum, assieme ad un certo compiacimento per la bizzarria. La perfezione delle creazioni culinarie di Nescaffier è la stessa dei courtesan au chocolat della pasticceria Mendl’s in Grand Budapest Hotel. Inoltre, in entrambi i casi il cibo rappresenta la via d’uscita da una condizione di prigionia. L’amore non è quello naif tra bambini in Moonrise Kingdom o quello impossibile e tormentato tra i fratelli Tenenbaum, ma sembra derivare dalla fusione di entrambe le esperienze. La moltitudine di citazioni di solito rischia di far diventare il tutto poco fruibile, ma l’abilità di Anderson sta nell’inserirle in contesti in cui divengono di facile lettura.
Elisa Di Fiore (Roma, 2002). Studentessa di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali – Università degli Studi Roma Tre