Il mondo è una finestra
Un buon esempio di cosa intendesse Jean-Luc Godard quando scrisse “È ora di fare i film in modo politico”. Quando nel 1969 Sergej Paradžanov realizzò Il colore del melograno – restaurato dalla Cineteca di Bologna assieme alla Fondazione di Scorsese e disponibile nel programma mensile della Cineteca Fuori Sala su MyMovies – è come se in seno all’Unione Sovietica dell’epoca scoppiasse una bomba, con conseguente reazione censoria.
Perché fino a quel momento Paradžanov aveva realizzato film perfettamente sovietici, al limite della propaganda e sentendosene “disgustato” (come dichiarerà in seguito) passò a un completo cambio di rotta, non politico, ma di sguardo:
Il colore del melograno è un film come non si era mai visto prima in URSS e anche un po’ nel resto del mondo. La base di partenza è la vita del trovatore e poeta armeno Sayat Nova (che dava il titolo alla versione originale del film, prima del rimontaggio di Stato), ma la realizzazione non è narrativa, è puramente pittorica, ispirata alla tradizione armena, alle miniature, al folklore.
“Tableaux vivants” composti da nature morte e simboli, inquadrature fisse dentro cui far germogliare le immagini staccandole dal naturalismo e affrontando un viaggio a ritroso nel tempo, in un concetto di antichità che per un’istituzione come quella sovietica del tempo doveva essere veleno. È uno stile che Paradžanov aveva anticipato già nel suo film precedente L’ombra degli avi dimenticati (1964), con cui si era cominciato a interessare alle tradizioni orali e popolari del proprio paese d’origine, ma che in Il colore del melograno raggiunge la perfezione e che continuerà a svilupparsi nei film a venire: la pura essenza estetica del cinema – l’immagine di Suren Shakhbazyan, le musiche di Tigran Mansurian, i suoni staccati dall’immagine – senza l’obbligo di raccontare, bensì, proprio come una poesia, di tramutare le immagini in idee, di chiedere allo spettatore di lasciarsi travolgere dalla carica visiva e spesso visionaria dell’immagine in sé, con il suo carico di significato che le scorre dentro.
Paradžanov sembra cercare un’immagine che sembri più antica del cinema stesso (come scrisse il critico scozzese Gilbert Adair), lavora su tutto ciò che il cinema, fin dalla sua apparizione, aveva superato, come la bidimensionalità e la staticità, i primitivi effetti di montaggio, fino al colore che diventa la linfa vitale dell’immagine stessa, che scolpisce gli spazi per toglierli dall’esigenza di “educare il popolo” e li riporta, con grande fertilità, al bisogno di farlo sentire, pensare, di essere colpiti e scioccati dalla potenza stessa dell’immagine, dall’estetica come veicolo di pensiero. Ecco la rivoluzione, ecco il cinema politico, quello che reagisce ai doveri e alle imposizioni dominanti prendendosi la libertà di andare da un’altra parte, di scavare dentro se stesso per guardare altrove.
Il colore del melograno [Sayat Nova, URSS 1969] REGIA Sergej Paradžanov.
CAST Sofiko Chiaureli. SCENEGGIATURA Sergej Paradžanov.
FOTOGRAFIA Suren Shakhbazyan. MUSICHE Tigran Mansurian.
Biografico, durata 78 minuti.