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Mank

sabato 5 Dicembre, 2020 | di Maria Eleonora C. Mollard
Mank
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A che prezzo Hollywood?

Potrebbe essere liquidato come l’ennesimo ritratto di icona culturale che nessuno vorrebbe mai avere tra i piedi, ma Mank (Herman J. Mankiewicz, interpretato da Gary Oldman) è tanto, forse pure troppo, simile a ogni icona culturale che ci siamo divertiti a innalzare e poi ad abbattere quando iniziavano a romperci le scatole. Perché è il destino di ogni genio, la solitudine dei mostri, quella dei fantasmi citati da Albert Camus nel suo Caligola. E l’intellettuale, ormai “umile sceneggiatore” Mankiewicz è pieno di fantasmi tanto quanto il suo contraltare William Randolph Hearst, ispirazione non troppo velata del Quarto Potere del duo Mank/Welles.

In un’epoca in cui la parola “genio” sotto ogni post casuale è stata svuotata di significato, conosciamo Mank nel suo apogeo artistico e nel perigeo esistenziale; lo seguiamo per due ore, tra flashback e “presente”, correre a perdifiato verso il baratro, a occhi bendati, nella propria e solipsistica apocalisse personale. 

Mank, scritto nei primi anni ‘90 da Jack Fincher (padre di David), è un film che guarda dallo spioncino la Hollywood degli anni ‘30 e ‘40, la fonte d’ispirazione di Kenneth Anger, dei festini, di Errol Flynn che suona il piano col pene di fronte a una perplessa Marilyn Monroe; la Hollywood del passaggio tra muto e sonoro, degli scrittori disillusi e dei cinema svuotati per la Grande Depressione, della politica e dei biopic (Quarto Potere) non ufficiali e/o autorizzati, dell’anima venduta agli Studios, dell’alcolismo socialmente accettato, del senso di colpa e dei suicidi nell’incapacità di sostenere quegli stessi sensi di colpa.

Era impossibile parlare di Hollywood senza parlare dell’America, in questo caso l’America che segue tra il serio e il faceto la politica internazionale (quanto suona dolorosamente attuale la scena in cui si parla della follia di Hitler); l’America dove la più grande preoccupazione non sono gli ebrei (anzi loro sono l’industria culturale, la fabbrica dei sogni, e i gentili possono solo accompagnare), ma chiunque si discosti dal partito repubblicano (vedi Upton Sinclair) esercitando lo spirito critico e la logica, in un mondo caracollante verso la totale follia della Seconda Guerra Mondiale. 

La crisi economica affondava le sue radici in una crisi spirituale che il paese subiva da tempo, nell’auto-tradimento di un’intera generazione e dei suoi esponenti votati all’arte, nella continua e cieca ricerca di un sogno, invece di cercare la strada per la propria personale America.

Hollywood viene descritta come quel luogo dove l’energia creativa non era utilizzata ma soffocata: “Scriva tanto e miri in basso”, battuta geniale di John Houseman che, tristemente, potrebbe essere applicata al palinsesto della stessa Netflix (che in parte fa ammenda dando qui carta bianca a David Fincher) e alla bulimia di parole che siamo costretti a subire ovunque. Un passaggio che mi ha ricordato Heimat, quando a Paul, che cerca l’America come tanti altri (proprio negli anni della Depressione), viene chiesto da un altro tedesco il motivo della sua fuga: parla di Paul come degli altri immigrati come “parte di quell’energia che si andrà a disperdere nel paese della sedia elettrica”. 

Il dolcissimo leitmotiv, nella struttura a singhiozzi del film che ricalca Quarto Potere, è l’innocua ossessione di Mank per la figura del Chisciotte e della bella Dulcinea, in questo caso Marion Davis interpretata magnificamente da Amanda Seyfried. Esattamente come l’uomo della Mancha fa sulla brava Davis un transfert della sua innocenza perduta, caricandola di significati che lei non vuole (nessuno vorrebbe), una slitta umana, la rosabella (rosebud) di Hearst/Foster Kane.

Mank è la storia della storia, principalmente quella di uno sceneggiatore alcolizzato che, come l’altro genio americano Mark Twain, ha preferito comportarsi da pagliaccio consapevole di non essere del tutto in grado di cavalcare un periodo di continui cambiamenti (sociali e non solo), ma ancora capace di scrivere evocando emozioni personali. E chi lo fa oggi? 

Per dirla con Oscar Wilde, citato da Peter Bogdanovich nella sua introduzione a Il cinema secondo Orson Welles: “Il pubblico è stupendamente tollerante: perdona tutto, tranne il genio”. 

Mank [Stati Uniti 2020] REGIA David Fincher. CAST Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Tom Pelphrey, Arliss Howard. SCENEGGIATURA Jack Fincher. FOTOGRAFIA Erik Messerschmidt. MUSICHE Trent Reznor, Atticus Ross. Drammatico/Biografico, durata 131 minuti.

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