«Siamo come il sognatore che sogna, e poi vive dentro al proprio sogno. Ma chi è il sognatore?» (Twin Peaks: il ritorno).
È uno strano sogno il cinema, non meno di quest’annus horribilis che sta volgendo al suo epilogo. Perciò risulta assolutamente in linea che uno degli ultimi festival cinematografici del 2020 si sia svolto online. Il Torino Film Festival, quest’anno diretto da Stefano Francia di Celle, ha colto il potenziale della banda larga in base alle sadiche condizioni che ci ha posto la Covid-19. I più apocalittici tra di noi si sono fatti prendere dagli scompensi cardiaci per un festival da non poter esperire in presenza, mentre altri hanno invocato nella chiusura delle sale una minaccia alla vita comunitaria (quale?).
Venendo incontro allo stato attuale dei problemi eterogenei che deve affrontare l’Italia, e non solo, tra cui reddito, occupazione, incertezze costanti, attraverso la piattaforma MYmovies per una lunga settimana pubblico, critica e aficionados hanno potuto esperire la situazione piacevolmente distopica di un festival – apprezzato come quello di Torino – completamente online.
Dopo l’incredibile efficienza di Venezia (a ripensarci coi 993 morti di oggi – scrivo in data 3 dicembre – quell’esperienza si è rivelata una dolcissima consolazione), e l’organizzazione mutilata in presenza di Roma che, nell’affidarsi a Ticketone, si è dimostrata lungimirante quanto Chamberlain nelle sue considerazioni su Hitler, la 38esima edizione del TFF è chiaramente un nuovo inizio, forse grazie all’assoluta sensazione di solitudine di non poter fare vis-à-vis coi colleghi il punto a fine giornata.
Dimenarsi nell’offerta legale (MUBI, Netflix, Amazon Prime Video, Disney+ o FestivalScope) e illegale (torrent e siti di streaming) si è rivelato un “morire di fame in mezzo all’abbondanza”; l’ordine giornaliero e il limite di tempo per ogni opera all’interno del Torino Film Festival (48 ore su Mymovies) ci hanno dato un ordine, delle coordinate, un modo di vivere un’esperienza totalmente immersiva del programma, cosa impossibile in presenza dato che spesso manca la giusta quantità di repliche e diversi film si accavallano agli stessi orari.
Se film come A Machine to Live In e Ouvertures (quest’ultimo vincitore del Premio Speciale della giuria nella sezione Documentari internazionali) risentono, in parte, dell’esperienza quasi carnale della sala (grazie a ChromeCast ho visto tutto in 4K e senza interruzioni di sorta dalla luce degli smartphone), Botox (il vincitore di questa edizione), la piccola chicca di È quasi Natale, Sin señas particulares e il sottovalutato Casa de antiguidades, sono stati visti nell’intimità della casa tanto decantata dallo stesso David Cronenberg ultimamente.
Può esistere il cinema fuori dalla sala? Slegarsi completamente a quella esperienza di comunione spirituale? Sì, a patto che cambi il cinema per come l’abbiamo pensato fino a oggi. E io voglio credere, come Paul Schrader, che dal caos di una pandemia mondiale, qualcuno nelle sue private stanze stia creando un nuovo tipo di cinema che non provi a parodiare quello che conosciamo tutti (narrativo o sperimentale che sia), ma sia figlio del suo tempo, dei suoi mezzi (cellulare o altro ancora che deve nascere) e trovi approdo sulle piattaforme del web senza doversi giustificare con nessuno.
“Siamo come il sognatore che sogna” e finché esisteremo noi, i sognatori, il cinema non morirà.