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Appunti dalla 13ª edizione de Le voci dell’inchiesta

sabato 21 Novembre, 2020 | di Andrea Moschioni Fioretti
Appunti dalla 13ª edizione de Le voci dell’inchiesta
Festival
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Essere disumani

La 13ª edizione del Festival pordenonese Le voci dell’inchiesta, come tante altre manifestazioni, si è tenuta interamente online, ma questo non gli ha impedito di realizzare un programma ricco ed eterogeneo. Tra le molte sezioni, una delle più importanti e attuali, nonostante la tematica che a prima vista può sembrare poco “originale”, è stata “Quando c’era lui”, una serie di film su Mussolini e le sue “gesta”. Qui ci soffermeremo su due classici del documentario, che diventano monito per ciò che ci circonda oggigiorno: All’armi siam fascisti di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, e Pays barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Entrambe le pellicole usano materiale d’archivio per dimostrare, senza pregiudizi o orpelli, come la realtà dei fatti sia l’unica arma nei confronti del revisionismo o della negazione storica.

I registi di All’armi siam fascisti hanno dovuto combattere con la censura per far vedere il loro film fin dalla sua uscita, quel 1962 dove il boom economico e la voglia di seppellire il passato facevano dimenticare al popolo italiano ciò che avevano vissuto pochi anni prima.

Il ventennio fascista fu caratterizzato da illusioni e consensi miopi, a cui la massa aveva obbedito sposando una visione di società che non si discosta molto da ciò che stiamo vivendo oggi: da un lato, il popolo che si fa abbindolare da un leader, che gioca sull’ignoranza e sul carattere manipolante dei suoi, per poter accrescere il suo potere; dall’altro lato, un regime fondato sulla fragilità dell’essere umano, che in un momento di crisi si appende al primo carro che passa che “parla la sua lingua”. Qualcosa di simile è accaduto solo pochi giorni fa, con gli accessori LIDL presi d’assalto come un feticcio da avere a tutti i costi: il perché e il senso di tutto ciò è insito nell’animo umano, che obbliga se stesso a seguire un fiume in piena senza porsi delle domande. Così fece la società del ventennio che, pur di non dover fare i conti con una propria coscienza, ha poi rinnegato tutto, anche in modo meschino e vile. Delle scene schiette e a volte correttamente violente, un commento che spesso fa parallelismi con gli anni ’60 e un grande coraggio, soprattutto nella critica al ruolo che ebbero la Chiesa e le istituzioni, fanno di All’armi siam fascisti un documento attuale, da rivedere spesso per non omettere chi siamo. 

Pays barbare è invece un film di montaggio che racconta, attraverso materiale originale d’epoca, la guerra coloniale fascista in Libia e nei Paesi del Corno d’Africa, con tutte le sue conseguenze. I barbari da civilizzare con le armi, le dinamiche sciocche del colonialismo, la disumanità della guerra sono accompagnati dai canti di Giovanna Marini e dimostrano l’orrore perpetrato nei confronti dell’uomo. Una violenza stupida e inutile, la radice di un odio che evidente anche oggi. Il diverso che non ha diritto di replica e, anzi, deve essere usurpato della sua libertà in nome dell’accrescimento del proprio ego. Gianikian e Ricci Lucchi utilizzano uno stile quasi sperimentale, accompagnando il tutto con una colonna sonora onirica e funeraria che vira pian piano nel surreale e nell’avanguardistico. Fotogrammi espressivi, frammentati, che non giocano sulla morbosità, ma mostrano e basta. Un atto artistico offerto nella sua semplicità non per scioccare, ma per insegnare. Una cosa che spesso dimentichiamo: la Storia non deve insegnarci per non commettere gli errori del passato, ma perché siamo tutti troppo ignoranti. Ignoriamo per non dover poi fare i conti con noi stessi, alzi la mano chi dimostra di fare il contrario sempre e comunque.

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