Maschi sull’orlo di una crisi di nervi
È il Quarto potere del cinema sudcoreano, ossia il film convenzionalmente considerato il più grande nella storia cinematografica del paese: parlare di Obaltan, anche conosciuto con il titolo internazionale di Aimless Bullet o Stray Bullet, è quindi un’operazione critica che non può non tenere conto della reputazione e della Storia, ma che, proprio per questo, si presta a uno sguardo moderno, a cercare di capirne l’eredità e il rapporto con il presente.
Diretto nel 1961 da Yu Hyun-mok, Obaltan racconta di un gruppo di reduci della guerra di Corea (1950-53) e delle loro difficoltà a tornare a una vita normale, in particolare Cheolho e la sua disastrata famiglia, dal fratello, incapace di trovare una strada, alla madre, distrutta dai traumi della guerra.
Scritto da Lee Beom-seon, il film, tra il realismo di Vidor e l’espressionismo moderno di Kurosawa, segue la strada del dramma sociale, che sarà il marchio di fabbrica di Yu e che lo porterà a essere inviso ai produttori e, soprattutto, alle autorità militari che governavano la Corea del Sud, negli anni ’60 – lo stesso Obaltan sarà bannato dal governo e poi distribuito solo grazie all’intervento di un consulente statunitense.
Il contrasto tra le poche luci, le molte ombre e i neri quasi totali, abissali della fotografia di Kim Hak-seong serve a Yu per mettere in scena la crisi, infinita e senza orizzonte, di una società maschile costruita per gerarchie, in cui gli strascichi della guerra si riflettono sul governo e da questo ai cittadini, incapaci di pensare a un mondo in cui non debbano rispondere a qualcuno, in cui non debbano soddisfare le richieste – dirette, implicite o solo introiettate – di qualcuno: «Perché devo essere all’altezza di così tante cose?», si chiede disperato Cheolho, rivelando il senso profondo della riflessione del film.
Yu va a fondo nel descrivere convenzioni e costrutti sociali della propria contemporaneità ed è bravissimo a mettere in relazione i personaggi e gli oggetti, a dare una risonanza poetica al rapporto tra di essi, a sottolinearne la fallacia, la loro corruzione fisica e morale: il mal di denti che tormenta il protagonista, la zoppia che affligge il fratello Yeongho, le porte o i vetri rotti che costeggiano la storia, elementi che fanno di Obaltan una sorta di versione coreana de I migliori anni della nostra vita di Wyler, ma più oscura, secca, si potrebbe dire cinica. Sorprendente e memorabile, in questo senso, il finale: dopo un desolato viaggio, ottuso dal dolore ai denti e oberato dai sensi di colpa familiari, Cheolho dovrebbe andare a visitare in ospedale la moglie, che ha appena partorito, ma il taxi su cui è salito continua a viaggiare e lui non lo ferma, continua ad andare, senza meta o uno scopo. Una pallottola randagia, come dice il titolo. La fuga dal mondo può essere la soluzione a una parabola dolorosa? Si chiude con una domanda, con gli echi dell’irresolutezza, Obaltan, e qui sta, forse, la sua più grande forza.
Obaltan [Id., Corea del Sud 1961] REGIA Yu Hyun-mok. CAST Kim Jin-kyu, Choi Moo-ryong, Seo Ae-ja, Kim Hye-jeong.
SCENEGGIATURA Lee Beom-seon. FOTOGRAFIA Kim Hak-seong. MUSICHE Seong-tae Kim.
Drammatico, durata 110 minuti.