La fabbrica dei supereroi
Fare un confronto tra Marvel Cinematic Universe e DC Universe è sostanzialmente mettere faccia a faccia la più redditizia operazione nell’industria cinematografica degli ultimi 10 anni con una pallida e raffazzonata emulazione.
Il cinema è un’industria e affinché un progetto di così larga scala vada in porto necessita di programmazione. Da qui si possono notare le prime sostanziali differenze: il progetto MCU, iniziato con Iron Man (2008), ha posto le basi fin da subito a quello che a tutti gli effetti è diventato un format riconoscibile e fidelizzante; ogni film è dedicato a un supereroe, come nella serialità, ha una sua trama verticale che si esaurisce generalmente entro l’arco narrativo della pellicola, con antagonisti e aiutanti specifici; l’inserimento di una macronarrazione orizzontale che lega tutti gli eroi, inizialmente discreta, con la dispersione di indizi che stimolano sottotraccia il pubblico su possibili evoluzioni e fomentano l’attesa per special event come quelli dedicati agli Avengers.
Programmazione appunto. Il format non è ovviamente esente da criticità, in particolare la riproposizione più o meno stanca del solito canovaccio, e un tono scanzonato che solo in rari casi ha saputo differenziarsi: Civil War e Age of Ultron hanno saputo dare realmente un’impronta più seriosa e drammatica.
La DC al contrario ha dimostrato fin da subito la necessità di rincorrere la rivale, accelerando i tempi di sviluppo e palesando in poco tempo la volontà di seguire le orme degli Avengers, portando sullo schermo la Justice League senza che ci fosse stata una presentazione adeguata dei personaggi. Eppure la linea iniziale scelta dalla Warner aveva senso, differenziandosi principalmente nei toni, sull’esempio della trilogia sul Cavaliere oscuro di Nolan, desaturata e realistica. Man of Steel, al netto di una certa lungaggine narrativa, mostrava un’alternativa ai cinecomic della MCU; lo stesso Batman v Superman: Dawn of Justice, che ibridava l’universo di due supereroi, era impregnato di un cupo pessimismo rendendolo sotto più punti di vista una pellicola stratificata, nonostante gli orrori di scrittura.
La differenza è stata, oltre alla fretta, quella di non riuscire a dare una direzione unica al progetto. L’eterogeneità non è un difetto in sé, anzi, l’aver voluto dare i progetti in mano a registi estrosi come Zack Snyder, David Ayer o James Wang, avrebbe dovuto al contrario mettere in mostra la criticità della standardizzazione Marvel. Invece ci si è trovati davanti a pellicole dalla qualità oscillante, troppo in balìa dei soggetti e che ha portato al pasticcio di Justice League, pellicola sbagliata in tutte le sue fasi in modo imbarazzante. Esatto opposto di quello che è stato invece il primo The Avengers, culmine non solo di tutte le storie, ma incontro e scontro delle personalità che traducevano le singolarità di supereroi e delle pellicole dedicategli.
L’intelligenza del MCU è stata quella sì di creare un prodotto riconoscibile, ma allo stesso di differenziarlo giocando con i generi, Capitan America tra il bellico e la spy story, Thor con la sua epica pop o il comedy adolescenziale di Spiderman. Un approccio che ha creato una differenziazione percettiva mantenendo inalterate le costanti, trovando il favore anche di un pubblico “smart”.
In quest’ottica, il confronto tra l’universo cinematografico Marvel e quello DC è un paragone che mette di fronte due modelli differenti, seppur entrambi in una logica industriale. Il primo più rigido e sistematico, che ha puntato, come chiave per la fidelizzazione dello spettatore, sulla fortunata riproposizione di esplicite costanti, a partire dall’assemblamento di un cast riconoscibile e affiatato; la DC Universe invece, nella furia di diventare competitor, ha avuto una costruzione frettolosa, che per quanto più libera da limitazioni creative, piuttosto che imporsi come alternativa “adulta” al MCU, si è afflosciata nella sua mancanza organizzativa.
Volenti o nolenti, il campo di scontro tra questi due universi non può essere qualitativo ma piuttosto visto in un’ottica prettamente industriale, in cui il prodotto si è imposto grazie alla sua riconoscibilità per quanto omologante, fidelizzando lo spettatore a una e più storie e abbandonando il concetto cinematografico di evento per abbracciare quello seriale, pensato ad un continuo divenire narrativo.