Poetiche percettive
Se la poesia, il poièin greco, è quel creare in sé proprio solamente del poiètes, il poeta-creatore artefice di cosmi sovrastanti ed extraterritoriali, e si è poeti perché si riesca a “doppiare” la vita nel senso (duplice) che ha il verbo, riproducendola e allo stesso tempo andando più in là, ebbene una tendenza non dissimile è rintacciabile in una certa frangia di cineasti europei contemporanei.
Trattasi di una vocazione al poièin, alla sperimentazione e creazione continua, distante da un codice prescritto ma prossima ai generi – e al genere – in cui a scorgersi è una loro trasmutazione, acuminata e sognante, in un altro universo di simboli e significati: una prassi stregonesca che agisce sulla realtà e la influenza, potenziandola, o meglio, romantizzandola. “Dream-cinema” o “cinema-rêve”, come l’ha definito Luigi Abiusi su il manifesto, un regime di sopra-realtà, ad esempio in Ultra Pulpe di Bertrand Mandico, costellato di presenze reviviscenti e fluorescenti, di suoni, ultrasuoni e corpi grotteschi crepitanti, di fluidi e materia scomposta, tumefatta ma (im)pura fonte di erotismo.
Sia in Mandico che in Les rencontres d’après minuit di Yann Gonzalez, o nell’inno alla notte parigina di Héléna Klotz, ad una città invisibile e lasciata nel fuori campo, a tratti post-apocalittica, brulicante soltanto di spettri e parvenze diafane (L’Âge atomique), c’è come un bisogno di transitare in uno spazio e tempo mediani, baluginanti tra la vita e il sogno, tramite l’artificio immaginativo, e il fantastico, facoltà respinte verso l’ignoto e rimandate infine allo stupore laddove, tuttavia, la “ragione” si arresta e le dissonanze di voci, generi, forme e codici esplodono. Ed è in effetti il caso dell’incantata visione di Yann Gonzalez, di quegli incontri dopo la mezzanotte in cui, prima che l’alba scorga, e l’amore, per contrappunto, rabbrividisca con il levarsi del crepuscolo, lontano dalla notte avvolgente in cui vuole stringersi – si pensi al climax finale e all’ipersensibilità dei due protagonisti, su cui, inesorabile, il cineasta francese insiste – il notturno è il luogo del sogno e del fiabesco: uno spazio mitopoietico di cui ciascun personaggio è partecipe, o prigioniero. Le epoche così si rifrangono, giustapponendosi, incuneandosi poi l’una nell’altra e si ritorna, per lo spettatore, a uno stato di cose primigenio, di percezione rapita e trasognata, fin quando la rêverie non avesse cessato di avvampare di desiderio: di vita.
È un territorio ancora inesplorato, vergine, quello in cui si muovono questi cineasti, o meglio iniziati, asceti della parola poetica e del suo essere caleidoscopico, sempre duttile, multiforme e multi-genere come nel caso di Les garçons sauvages. Fluidi colanti e liquidi caliginosi, insieme al rosario di corpi martirizzati, e poi trasfigurati, “corretti” dall’unica prospettiva possibile, quella femminile, occupano lo spazio di ogni inquadratura, tra la ruvidezza della pellicola e il bianco e nero granuloso, traslucido: è stato già detto tanto della sequenza sottomarina che evoca l’espressione di Jean Dasté in L’Atalante di Vigo, dei richiami a Fassbinder o dello stordimento del sesso, di quell’ebbrezza e gorgo impudichi (Borowczyk) che prima risucchiano e poi disvelano, costringendo lo spettatore a guardarsi nelle viscere, negli interstizi, nei vani di cui si ha timore. Tutta l’opera di Mandico – ed è proprio nel carattere massimale, estremo, di questo atteggiamento che si differenzia da Gonzalez, ad esempio – è fondata infatti su un gesto di portata antropologica, l’anasyrma, il modo in cui nell’antica Grecia venivano improvvisamente tolti i vestiti che coprono le parti nascoste del corpo, gli organi sessuali, provocando riso liberatorio. Come in Borowsczyk, l’esposizione, il disvelamento, appunto, portano alla scoperta di una verità che passa attraverso il corpo, attraverso la sessualità: e se la sessualità, stando al valore sovversivo, e quindi rivoluzionario, del discorso parresiastico, quello della nuda verità (Foucault), è l’origine vera della libertà, non ci deve essere censura né reticenze.
Il discorso sulla forza di un corpo in continuo divenire è nodale in Mandico. I suoi ragazzacci subiscono un processo di transizione che da indomiti li trasformerebbe in creature civilizzate, docili: in donne. Ma se «il futuro è strega» il rinnovamento e la rinascita (presunta) non sono poi così immediati, scabri di contraddizioni: non c’è manicheismo, anzi il maschile e il femminile sembrano coinvolti in continui e morbosi processi di scambio, quasi fosse lo stesso dualismo a spingere al superamento dello stesso, a nuove forme di identità e genere. A metà del film accade che il pene e lo scroto di Romauld cadono per rivelare l’organo sessuale femminile. Si sa che i protagonisti sono interpretati da cinque donne, ma è quasi impossibile, per lo spettatore maschio, immaginarle in quanto tali e, come scrive Henri de Corinth su mubi.com, imporre loro proprie fantasie erotiche: e lo sguardo, se vogliamo eteronormativo, viene smascherato e demitizzato. In una recente intervista, il regista ha dichiarato di concepire i suoi film come delle utopie queer, in cui possano coesistere istanze antagoniste, antinomiche, senza che l’una sia fatta valere meno dell’altra. Queer, dal latino torquere, significa “trasversale, diagonale, obliquo” e in Les garçons sauvages si produce un effetto di variazione e obliquità continui, di distanza dalla norma, a partire dalla forma, ellittica, allucinogena (come, d’altra parte, nei film di cui si è parlato) ed è queer, in questo senso, il personaggio di Tanguy, la cui transizione non vuole compiersi, strutturarsi, bensì in-definirsi, essere al mondo né uomo né donna.