Una mostra è un film senza videocamera
Al 48° International Film Festival di Rotterdam di quest’anno Philippe Parreno ha presentato la sua ultima opera No More Reality Whatsoever (1988-2018). Si tratta di un lungometraggio che comprende tutta la sua produzione filmica: vent’anni di riprese cucite insieme in un’incessante spola tra media diversi, proiettate di fronte all’ultimo film di Godard, Le Livre d’image, all’interno di una replica esatta dello studio del cineasta francese.
L’artista si è detto lusingato di condividere l’ennesima esperienza con il capostipite della Nouvelle Vague, cose tra cui già si annoverano la residenza nel quartiere La Villeneuve – un esperimento di housing sociale a sud di Grenoble, in cui il primo ha passato l’infanzia e Godard soltanto il periodo di sfioritura di un sogno – la lettura appassionata dei Cahiers du Cinéma e la tendenza ad articolare le idee contro qualsiasi successione lineare. Discutere delle influenze cinematografiche di Parreno sarebbe probabilmente più lungo che parlare della sua attività come videomaker, partita nel 1987 con un filmato che immortalava dei fiori fuori fuoco – poi spedito a tutte le compagnie televisive francesi e mandato in onda da Canal+ come sfondo al meteo della sera – ed evolutosi in gioielli di riflessione metacinematografica come C.H.Z e Credits, o negli arcinoti Zidane: A 21st Century Portrait e Marilyn. Mentre i primi (un saggio di science fiction ambientato in un giardino progettato ad hoc con l’architetto paesaggista Bas Smets, tuttora esistente nei pressi di Porto, e la ricostruzione di un’immagine attraverso i punti di vista di tre personaggi diversi secondo le teorie del Pasolini di Empirismo Eretico) mostrano come la rappresentazione filmica sia in grado di costruire la realtà, Zidane e Marilyn allenano la capacità ritrattistica del cinema al di là delle convenzioni della fiction o del documentario. Nel primo, girato con l’artista Douglas Gordon, 17 telecamere in sincrono riprendono il calciatore algerino durante tutti i 90 minuti di una partita senza mai staccarsi dalla sua faccia; nel secondo invece Marilyn Monroe non si vede, ma la sua presenza ci è restituita in soggettiva mentre il suo sguardo cade sugli interni stranianti della suite dell’hotel Astoria e sugli appunti che sta scrivendo, mentre un telefono squilla senza risposta. Voce e calligrafia dell’attrice sono riprodotti da un algoritmo e da un robot progettati allo scopo; il suo sguardo è quello della telecamera, lo stesso che alla fine del film ci mostra impietoso tutti questi meccanismi.
Tratteggiare l’identità attraverso le immagini in movimento è così congeniale a Parreno che riesce a farlo anche con chi non ne ha, come nel caso di Annlee, il personaggio manga acquistato con l’artista Pierre Huyghe da una società giapponese e protagonista del progetto collaborativo No Ghost Just a Shell. Basterebbero già questi esempi a definire i rapporti dell’artista con l’audiovisivo, se non fosse che il vero momento in cui Parreno fa cinema è quando progetta una mostra. Fedele alla scuola dell’estetica relazionale di cui fa parte e al pensiero di Daniel Buren, Parreno concepisce la mostra come un avvenimento, una sorta di evento esteso. Esporre per lui non significa presentare degli oggetti in un determinato spazio, ma far accadere delle cose in un determinato periodo di tempo: è, in sostanza, un’esperienza cinematica a tutti gli effetti. Le sue personali più celebri (H {N)Y P N(Y} OSIS e Hypotheses, rispettivamente al Park Avenue Armory di New York e all’Hangar Pirelli di Milano, Anywhere, Anywhere Out of the World al Palais de Tokio di Parigi e Anywhen nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra) hanno tutte dei precisi elementi in comune con l’audiovisivo: sono un’esperienza guidata in spazi coreografati, svolgendosi secondo un copione nascosto, che orienta non solo la disposizione delle opere ma anche le azioni dei visitatori; hanno una temporalità peculiare che sovverte quello che siamo abituati a percepire e un accompagnamento musicale, spesso frutto della collaborazione con musicisti e compositori. In questi contesti i visitatori diventano partecipanti attivi di un’esperienza che sfida i limiti temporali, immersi in quello che lo stesso Parreno ha definito “cinema permanente”: una dimensione in cui le immagini prendono forma e si susseguono senza che sia possibile identificarne l’inizio o la fine. In questi spazi gli spettatori passeggiano tra proiezioni dei suoi film, automi e automatismi, pianoforti a coda suonati da algoritmi o da persone in carne e ossa, fari di scena ed enormi marquees catapultate dai cinema degli anni Cinquanta in uno status catatonico di quasi-oggetto, ricreate dall’artista in forma di imponenti installazioni a luci LED intermittenti e poi appese al soffitto di ambienti industriali dismessi, spazi enormi in cui tutto può succedere, anche di scambiare la realtà con la finzione. Con i suoi continui disorientamenti percettivi e i suoi giochi di luci ed ombre memori delle fantasmagorie del XIX secolo, l’opera di Parreno svela una comunione d’intenti tra cinema e arte contemporanea: l’abbandono della registrazione della realtà oggettiva in favore della riflessione sui suoi meccanismi di produzione attraverso le immagini.