Un ritorno al passato?
Chissà perché ma ormai non si sente più dire che il cinema italiano è in crisi, un leitmotiv che negli ultimi decenni ha caratterizzato il nostro Paese: significa forse che il nostro cinema vive una fase di rinnovata vitalità? Bisogna innanzitutto pensare che la sala cinematografica sta registrando un calo vertiginoso degli spettatori sia per quanto riguarda i blockbuster che i film d’autore (per farsi un’idea potete consultare questi dati da MYmovies). Un impoverimento e un disinteresse dalle varie cause, non di interesse in questo focus ma indicative di alcune tendenze del cinema nostrano.
Per riacciuffare pubblico si è in qualche modo tornati al cinema di genere che da Lo chiamavano Jegg Robot in poi ha visto arrivare in sala il Dogman di Garrone, thriller mescolato al dramma esistenziale, e la cosa non può che far bene. Se si pensa che un’errata valutazione nei confronti del gusto del pubblico vedeva solo pochi anni fa l’unico cinema possibile nella commedia, in cui si sono cimentati anche insospettabili autori con esiti poco felici (vedi Soldini), constatare che invece ognuno si sia “ripreso” il proprio ruolo è una buona notizia. Netflix, per esempio, l’ha capito, e dopo Sulla mia pelle produce un cinepanettone, fuori tempo massimo e acutamente scontato, Natale a 5 stelle, in cui cerca di far ridere con la stolta politica odierna. Quello che non è riuscito a fare Sorrentino che ormai è diventato la copia di se stesso, spinto in parte dall’apprezzamento internazionale, mentre autori meno noti ma più “sperimentatori” dimostrano un’ambizione a riproporsi tra la gente. Storie comuni e ai margini della società, La terra dell’abbastanza e il realismo magico di Lazzaro felice, che sedimentano un nuovo neorealismo in cui però manca il cinismo dei grandi autori del passato.
L’atmosfera che si respira è disfattista e seriamente immobile, non c’è ribellione o rivalsa ma solo la presentazione di personaggi che sono in balia degli eventi senza saperli domare. Abbiamo smesso di essere furbi e cattivi e, soprattutto, non gridiamo più il nostro malessere, al massimo ci facciamo da parte. E di tutto ciò parlano le storie cinematografiche di oggi, un cinema di fatti e non di registi che gioiscano nel raccontare. Ma forse non è un male, perché il nostro è un cinema di attori, nel senso che è fatto di volti e che sempre di più vengono prodotte pellicole dirette da attori noti, ultimo in ordine di apparizione il Ride di Mastandrea. Una tendenza che non è nuova ma che fa emergere la necessità di tastare il polso al nostro Paese cercando di smarcarsi anche dalla “romanità” imperante, che rimane ancora uno stereotipo difficile da superare. Alessandro Borghi, Luca Marinelli e i vari Amendola e Memphis sono gli Arena, Salvatori e Sordi (con le dovute differenze) di ieri, che meriterebbero di essere sfruttati meglio e differentemente. Ma, come già detto prima, a volte si pensa che il pubblico non sia preparato, o meglio, non gradisca le modernità. Poi arriva Fasulo e il suo Menocchio con uno stile misto al pittorico e alla verità documentaristica che attraverso una vicenda ambientata alla fine del Cinquecento ci invita alla ribellione. Siamo ancora in grado di fare gruppo attraverso l’iniziativa del singolo, anche a livello internazionale, anche se purtroppo Garrone non concorrerà per l’Oscar. E se Guadagnino se ne infischia di omologarsi e dopo il “classico” Chiamami col tuo nome si catapulta nel falso remake di Suspiria, Boldi e De Sica ritornano insieme, Martone ripensa alla “sua” Campania, Moretti profetizza situazioni in cui potremmo ritrovarci. Tutto torna, per fortuna!