Icone
Una tematica sotterranea ha unito molti dei film presentati in concorso alla 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: la centralità simbolica della donna. Parliamo di film che agiscono su un terreno in qualche modo sfuggente e vago, giocando nel territorio indefinito della Storia con la esse maiuscola e del suo evolversi più carsico e invisibile, in quello della rielaborazione privata ed elegiaca o in quello dei generi e della loro malleabilità.
In queste opere la donna è vista come un’icona, contemporaneamente attiva e passiva, della Storia, uno specchio su cui si riflettono e agiscono, nel bene come nel male, gli aspetti e le evoluzioni più latenti di una società, di una cultura e di un contesto.
La capacità di attirare e sintetizzare le ebollizioni sotterranee di una realtà storica e sociale è evidente in Sunset di László Nemes. Nella Budapest degli anni precedenti allo scoppio della grande guerra l’Ancien Regime ottocentesco deflagra; il vaso di Pandora di problematiche e tensioni ormai insostenibili viene scoperchiato dal ritorno di Iris e dalla sua ostinazione nel voler scoprire i segreti del passato. Nemes evita l’affresco storico e compie un’incursione nella soggettività, restringendo lo sguardo sulla protagonista e sul suo primo piano. La cinepresa “pedina” il suo volto, mentre la distruzione avviene sullo sfondo è vaga, sfocata o nascosta. La discesa negli inferi dell’ossessione della protagonista è parallela alla discesa nella violenza della civiltà che implode; i due aspetti sono reciprocamente causa e conseguenza e reciprocamente determinano il risveglio di un male insito nel profondo e inevitabile. È quindi come se il primo piano fosse il luogo dove si specchia e si sintetizza la distruzione che noi spettatori intuiamo, sfocata, nelle “zone d’ombra” dell’inquadratura. In questo modo lo sguardo apparentemente ristretto di Nemes si allarga diventando il racconto universale della fine di un’epoca e una riflessione inesorabile sul male in agguato. Che trova il suo punto focale nella figura femminile, nella sua centralità simbolica e trascendente e nella sua capacità di essere testimone attiva e “sintesi”, come l’epilogo in trincea conferma.
Entriamo nel territorio dell’horror con Suspiria di Luca Guadagnino. La partitura composta da Dario Argento viene innestata da una serie di suggestioni che rendono questo “remake” densissimo. Tra queste, sono centrali il contesto politico – le azioni della RAF nella Berlino degli anni Settanta – e gli effetti della repressione sessuale e del puritanesimo che esplodono nel furore ossessivo della danza fungendo da causa scatenante dell’horror. La donna ancora una volta veicola riflessioni e tematiche che dall’intimo si allargano alla cornice storica e politica. Non è un monodimensionale “strumento” dell’horror come spesso capita, ma in qualche modo è il contrario; l’horror si scatena proprio per l’esplosione delle questioni, tanto radicate da apparire ormai insostenibili, di cui le donne del film sono vittime e simboli.
Con La favorita Yorgos Lanthimos trasforma invece un soggetto da tragedia shakespeariana in una commedia che spesso assume i toni roboanti della farsa, ribadendo la sua sfiducia nell’umanità. Tra invidie, complotti e una mai abbastanza soddisfatta sete di potere, due delle tre donne protagoniste paiono consapevoli di essere allo stesso tempo motori decisivi e vittime inevitabili della storia con la esse maiuscola, comportandosi con il cinismo e la tenacia disperate e disilluse di chi è consapevole di questo “ruolo”. E i maschi? Imbellettati, ridicoli e talmente tronfi da non riuscire neanche vagamente a sospettare di essere usati dalle protagoniste, pur convinti di avere il coltello dalla parte del manico; un po’ come nelle migliori screwball, esempi di commedia femminile a cui significativamente a tratti Lanthimos pare ispirarsi.
I maschi fanno una figura altrettanto barbina nel Leone d’Oro Roma di Cuarón, saga intimista con cui il regista messicano realizza il suo Amarcord omaggiando la figura della tata della sua infanzia. I maschi adulti sono comparse, meschine e indegne di venire approfondite, decisive solo nel dolore. Sono figure monodimensionali essenziali nella tragedia o figure ridicole messe alla berlina dai saltuari momenti da commedia. Roma è un film totalmente al femminile che non solo celebra una figura essenziale nella vita del regista raccontandone i dolori, la capacità di reagire e di essere salvifica al limite del sacrificio, ma ribadisce il ruolo sottilmente decisivo e iconico della donna sull’evolversi del contesto.