Rai3, venerdì 24 febbraio,ore 5.55
Fatalità e illusioni
Becker era un regista quasi anomalo nel cinema francese. Rigoroso, romantico, eclettico traghettatore di commedie e drammi, regista del sistema produttivo ma anche lungimirante interprete delle possibilità di quel sistema.
Fin qui, una descrizione che può calzare anche per René Clair, Marcel Carné, persino per nomi meno virtuosi e meno consapevoli del mezzo cinema come Yves Allégret, o per cambiare tempo e azione anche l’odierno Cédric Klapisch. Ma, scorrendo gli apici della filmografia di Becker, non troveremo nessun regista tra quelli citati che gli assomigli. Casco d’oro, Grisbì,Il buco, almeno nella filosofia, sono più figli del Naturalismo letterario o del Fritz Lang americano che del cinema francese, eppure possiedono una malinconia antropologica, una descrizione delle periferie urbane e umane, un antieroismo romantico che non possono non creare una sensibilissima prosa transalpina. Becker però, come Jean-Pierre Melville, era ossessionato, almeno nei suoi film maggiori, dalla predestinazione dell’individuo: la fatalità, per meccanismi invisibili e beffardi, oppure tragici ed etici, colpisce i protagonisti e il futuro migliore diventa il miraggio dell’ultima possibilità perduta. Se c’è amore, c’è morte; se c’è un colpo azzardato, c’è l’imperfezione che si vendica; se c’è fuga dal carcere, c’è l’amarezza di non completarla mai o di tornare indietro. Becker credeva in un cinema determinista che punisce l’uomo temerario, l’uomo che coraggiosamente abbandona la ragione per seguire il sentimento, o meglio l’impeto. Se il sistema uomo sfida anarchicamente i suoi confini, ci sarà un sistema più grande che lo gioca, lo punisce per la sua presunzione, ma forse sarebbe meglio dire, per la sua umanità, fino alle estreme conseguenze. Nessuna immagine sembra indicata a descrivere la filosofia del suo cinema più della partita a scacchi tra il cavaliere Antonius Block e la Morte ne Il settimo sigillo. Ma solo come similitudine, perché Becker era molto diverso da Bergman. E Casco d’oro è il film che più può dimostrarlo.
Ispirato a una vera storia, quella della prostituta Amélie Hélie, detta “casco d’oro” per i capelli biondi, e del suo breve incontro con Georges Manda, falegname un tempo galeotto che vuole destinarsi a nuova vita, sia con il lavoro onesto sia con la figlia del principale. Il primo incontro tra Georges e Amélie sembra un evento destinato a non ripetersi: un ballo all’aperto, molti sguardi, nulla più. Ma lo sguardo emanava passione. Così Georges rinnoverà il suo incontro con “casco d’oro”, provocando la gelosia del suo protettore e un duello notturno. È il momento di non ritorno: Georges uccide, ritorna a essere criminale, e non potrà più salvarsi dall’omicidio che ha innescato. Il determinismo di Becker muove le sue reti e catturerà Georges un po’ per volta, prima concedendogli l’amore anticonformista di Amélie, poi introducendogli il senso di colpa non per il morto ma per l’amico accusato al suo posto.
A sentirla così, la narrativa di Becker sembra la messa a punto di un calcolo cinico e ciclico, ma nel suo cinema la mente parla fino a un certo limite. Becker non vuole creare un mélo e così asciuga il suo film di ogni sentimentalismo; non ama virtuosismi formali e così trattiene la morte sempre fuori campo; eppure crea retoriche straordinarie con una messa in scena apparentemente semplice, ma invece minuziosa, parca di parole e tuttavia delicatissima, riccamente sintetica, mai invadente. Così la narrazione di una cronaca diventa un’accorata comprensione del crimine umano elementare, e non soltanto un racconto di predestinazione ma l’occasione poetica di vedere l’uomo comune che affronta il suo destino, o meglio il suo ultimo destino, e quindi la breve, finalmente e pienamente libera vita che gli resta dopo il reato. È un cinema che filma il prezzo ottenuto per le proprie colpe, senza ragionare per moralismi ma cercando in questo prezzo quei pochi istanti di bellezza che restano all’uomo, siano scorci di vita “en plein air” lontani dalla città fatale, siano gli sguardi clandestini a un matrimonio in chiesa che entrambi i protagonisti osservano con disagio perché non realizzeranno mai. Allora, soltanto allora, si potrà integrare quell’iniziale silenzio del ballo all’amore, e con la stessa forza trasformare, in uno dei più cupi e nostalgici finali del cinema francese, l’amore in un ballo di silenzi che si possono soltanto ricordare.
Casco d’oro è del 1952, ma ancora oggi sembra un film di rara bellezza, tanto figlio del naturalismo e di Émile Zola e Guy De Maupassant in particolare quanto erede del Realismo poetico francese. Quel che fece meravigliosamente Jean Renoir con L’angelo del male. Casco d’oro non è L’angelo del male, ma quasi e forse è persino più dolente. Perché sotto l’esecuzione del fatalismo sembra di vedere la morte delle più semplici utopie. O la loro breve vita.