Non serve certo essere un esperto per capire che negli ultimi quindici anni il cinema mainstream si regge sostanzialmente sulle tracce del passato, diventandone una copia più o meno sbiadita. Quasi tutte le uscite più importanti della Hollywood massimalista sono ormai sequel o remake che si trascinano da decenni o che richiamano pilastri dell’età d’oro dei blockbuster americani.
Come sempre il cinema riflette la società, e in questi tempi di fortissima post modernità l’intrinseca mancanza d’identità dell’oggi deflagra anche nella settima arte, appropriandosi di schemi contenutistici di altre epoche. L’abbondante sovraproduzione di narrazioni riciclate è stata spesso oggetto di lamenti, da parte del pubblico ma soprattutto della critica, che quasi unanimemente sostiene che la mancanza di specificità rende queste opere piuttosto dimenticabili.
Va però notata una cosa, che sembra essere passata sotto silenzio: gli ultimi due film dalla produzione multimilionaria che hanno riscosso ammirazione anche nei confronti della critica più intransigente sono proprio due sequel/remake. Il primo risale ormai al 2015 ed è Mad Max: Fury Road di George Miller, feroce corsa nel deserto che smonta il viaggio dell’eroe e lo trasforma in un ritorno al punto di partenza, finito al terzo posto nei dieci miglior film dell’anno per i Cahiers du Cinéma e, appunto, remake del cult anni ’80 con Mel Gibson. Il secondo è fresco di sala ed è un sequel: Blade Runner 2049; costata 165 milioni di dollari quest’opera diretta dal regista canadese Denis Villeneuve ne ha incassati solo 95, non brillando per consensi da parte del pubblico, mentre l’entusiasmo da parte degli studiosi di cinema di tutto il mondo sembra essere pressoché unanime. In maniera particolare è stata apprezzata la riflessione sullo smarrimento di un mondo che non è più in grado di definirsi umano e che si regge sui fantasmi dell’immagine di un consumismo stinto e di un imperialismo perduto.
È possibile che per entrambi i film sia stata proprio la decostruzione e la meta riflessione sull’essere una copia di una sostanza del passato ad affascinare chi del cinema ne ha fatto la propria vita? È possibile che la mancanza di identità di buona parte dei film del ventunesimo secolo sia diventata essa stessa un’identità? È possibile che quella che da qualcuno viene definita come “la morte del cinema” riesca anche a produrre della bellezza? Nessuno per ora può dare una risposta a queste domande, ma presto capiremo se un cinema che riflette sullo schermo la propria fine possa anche alimentare una rinascita o se piuttosto sia destinato a scomparire, lasciando solo delle scie di luce dopo la sua implosione.