Dramma d’attore
Realtà e finzione. Da sempre una delle tematiche più frequenti nella storia del cinema, ma la vera curiosità di un tema tanto abusato sta nel fatto di essere lo specchio con cui la settima arte si trova, costantemente, a dover fare i conti.
Si tratta di un relazione riflessiva, che invita e costringe il cinema a ragionare su se stesso, sulle proprie componenti, finanche sul proprio statuto.
Lettura, questa, che ben si presta all’ultimo film di Rodrigo Garcia e trova, nella complessa figura del protagonista, i suoi tratti più nitidi.
Siamo nel pieno del XIX secolo e Albert Nobbs (Glenn Close), maggiordomo impeccabile di un albergo di Dublino, sveglio, distinto, dai modi garbati, nasconde, in realtà, un segreto irrivelabile: è una donna.
Non a caso è il lavoro sull’attorialità a costituire la parte più interessante: il film ruota, infatti, tutt’attorno al personaggio protagonista, mentre gli aspetti stilistici e tematici non sembrano rivelare granché (tutto sommato si ricorre all’abusatissimo topos dell’immagine sociale).
Se di film sul travestitismo ne abbiamo visti parecchi (pescando nel mucchio possiamo ricordare Il diavolo è femmina, Victor Victoria, Tootsie, Mrs. Doubtfire) questo vi si accoda, evidenziando, però, la propensione ad una riflessione più propriamente metacinematografica. Glenn Close lavora minuziosamente al personaggio che interpreta concentrandosi soprattutto sui movimenti e sulla voce, resa un po’ androgina nel timbro, e riuscendo nel difficile compito di impersonare, da attrice, un personaggio che, a sua volta, recita.
Il rivelarsi dello statuto di attore è palesato sin dall’incipit del film; il protagonista è mostrato di spalle, intento ad accendere le lampade ad olio di un corridoio dell’albergo, ma ecco che, quando si avvicina all’ultima lampada, la macchina da presa stacca e si apre in un Primissimo Piano su di lui: il viso, nel buio, si illumina e mostra, in tutta chiarezza, il volto di Glenn Close. L’intento dell’attrice consiste in una riflessione su se stessa, alle prese con un personaggio che, esattamente come chi recita, deve convivere con la finzione. Rivelandosi quale Glenn Close, si disincarna, momentaneamente, dal personaggio, ci ammicca e ci invita ad assistere al virtuosismo di cui è capace. Peccato si tratti di un’operazione tanto virtuosa quanto algida.