RaiMovie, lunedì 30 gennaio, ore 7.05
I grandi film di ieri non sono i grandi film di oggi
I film spettacolari hanno una scadenza. Potrebbe essere un luogo comune più che una frase, perché qualsiasi film, indipendentemente dal genere di appartenenza, abbisogna di un restauro per sopravvivere, e comunque dopo le cure laboratoriali faticherà a ritrovare un nuovo pubblico.
Il film potrà ritrovare lo stesso pubblico più probabilmente, soltanto se non verrà dimenticato. Ma i film che guadagnano nuovi pubblici, nuovi onori, esistono perché sono una stretta minoranza capace di prolungarsi per attualità, per stimoli intellettuali e narrativi, perché ad ogni visione non si esauriscono. Questa è la categoria dei figli dell’arte che sopravvivono per prima cosa al proprio contesto storico-sociale, persino al target d’origine se ce l’avevano, che non vengono studiati per esclusivo interesse storico. E se accade l’opposto? Se un film entusiasmò e meritò un riconoscimento di grandezza che oggi non gli si può restituire? Allora il restauro serve a poco, perché è morto o deteriorato prima il film della pellicola. Difficilmente la storia del cinema ama sentire una responsabilità simile: anche nell’eredità storica domina infatti l’affetto cinefilo che salvaguarda qualsiasi film storicamente degno di nota, e la storia del cinema a quanto pare non si discute, si tramanda. Ma critica e storia sono due percorsi che si intersecano ripetutamente, l’uno indispensabile all’altro, eppure sono momenti riflessivi diversi. Così, è vero che storicamente Il ladro di Bagdad fu uno dei vertici produttivi della cinematografia inglese e l’apice dei fratelli Korda, uno dei film inglesi più importanti per l’impegno di capitali e per l’audacia di filmare un racconto da Le Mille e una notte, per l’impiego di effetti visivi allora immaginifici e per l’influenza che dispensò su molti film statunitensi d’avventura. E allora, per questo oggi, e sottolineo oggi, dev’esser considerato un film straordinario? Se rispondesse la storia sì, ma se deve parlare la critica allora si aprono dubbi. Bisogna rispondere altrimenti. Il ladro di Bagdad è del 1940 e ciò accresce la sua importanza perché sostenere un tale investimento durante il conflitto bellico gli rende onore e spiega la sua ultimazione produttiva in terra americana. Quindi sono trascorsi più di settant’anni; provate a scorrere il tempo, e immaginarvi il futuro di Avatar, di Transformers in un identico arco temporale: i campioni dell’estetica popolare di oggi perderanno la loro base tecnologica con l’avvento di prodotti che li supereranno. Avranno un vantaggio rispetto a Il ladro di Bagdad, perché l’attuale evoluzione tecnica, grazie alla computer grafic, rende mimetici gli effetti speciali e più durevoli al tempo. Pertanto l’estetica di questi film resisterà molto di più, ma si tratterà pur sempre di un resistere perché la stessa tecnologia sommergerà con nuove variabili gli antipodi di oggi e fra settant’anni, o probabilmente molto prima, li ricorderemo come frontiere varcate di un tempo passato, momenti di storia. I momenti di storia che vengono tramandati, ma se sono storie di un momento, valgono solo per quel momento, e anni dopo non valgono più.
Il ladro di Bagdad è solo la storia di un momento, anche se magniloquente e piacevole. Se supererà ancora le barriere del tempo lo deve non all’importanza del cinema spettacolare ma all’immortalità di Le mille e una notte e al fascino perenne che la lettura di questo libro porterà sempre con sé. La vicenda di Ahmad, principe che diventa povero e poi cieco per amore di una principessa, di Abu, il vero “ladro di Bagdad” che lo aiuterà fedelmente quando è un cane e poi con le magie del genio e del tappeto volante, di Jaffar che insegue il male con una stregoneria e una diabolicità tutta arcaica: sono storie che si incatenano e si rimandano con un potere fantastico che non si esaurirà in nessuna epoca, sia che a leggerle siano dei bambini alla prima lettura sia che a rileggerle siano occhi abituati a tante pagine. Da questo tesoro narrativo furono tratti anche Il ladro di Bagdad muto di Raoul Walsh e Aladdin. E paradossalmente sembra che soltanto quest’ultimo, un film d’animazione, in futuro renderà al meglio Le mille e una notte, perché è un congegno scatenato di ritmo, creatività surreale e fantasticheria, di romanticismo e di ladroneria che riesce non solo a replicare ma perfino a interiorizzare l’esotismo narrativo del classico arabo con lo spirito Disney più originale, innalzando come soluzioni il cantato variopinto e il virtuosismo di un’immagine animata che anima e rianima tutte le possibilità del film d’avventura, anche le più impensabili.
Il ladro di Bagdad, invece, conserva la sua fantasia folgorante ma in scala molto ridotta e sembra ormai uno spettacolo irrimediabilmente sciupato, interessante solo visivamente. I suoi effetti speciali ora lo tradiscono, ma non lo tradisce l’affabile anacronismo di un mondo fiabesco che è soprattutto azione ingenua, ingegnosa ma non imprevedibile, valida però datata, figliata ad un buonismo non ironico che senza Conrad Veidt a interpretare i maligni piani di Jaffar sembrerebbe infantile e poi patetico. Non lo tradisce il bisogno pittorico di un’immagine ricca (tra i tre registi del film c’è anche Michael Powell, il più geniale autore visionario del cinema inglese), al contrario della sceneggiatura, ma l’ingenuità che allora trovò un pubblico oggi non meraviglierebbe i più piccoli già abituati a immagini complesse, sebbene molti blockbuster attuali proseguono una simile ingenuità, pur non avvicinandosi neanche alla fertilità creativa di questo film.
O forse mi sbaglio: allora come oggi, le grandi produzioni miravano al mito del sogno avventuroso ad occhi aperti che evade la realtà. Semplicemente ora si sogna meno, ma si fa sempre lo stesso sogno, solo con più pretese per gli occhi.