Uno spettacolo di qualità
Se l’anno scorso ci si poneva ancora la questione dell’identità del festival romano dopo l’edizione 2016, la seconda firmata da Antonio Monda, si può dire che l’annosa e ormai superflua diatriba si sia ormai conclusa. Ai molti che ancora, passeggiando tra le sale dell’Auditorium Parco della Musica, notano la mancanza di “un’aria da festival” risponde la confermata denominazione Festa (e non festival) del Cinema, incentrata su un pubblico dai gusti variegati e non sofisticati.
I film selezionati non sembrano rispondere a nessun particolare impegno ed a nessuna vocazione specifica se non quella della godibilità, tanto da farne una vetrina non tanto dell’arte cinematografica, quanto dello spettacolo Cinema. Le sezioni collaterali, infatti, a cui, negli scorsi anni, erano affidati i lavori più sperimentali e di ricerca, sono state relegate ad una programmazione marginale e meno visibile, in sale distanti dal centro fisico e d’attenzione della manifestazione. Tutto in favore di una selezione ufficiale con ancora più titoli, 40, davvero omogenea e ben ragionata, rappresentativa di molte tendenze del cinema più seguito a livello internazionale. Non sono mancati i nomi importanti (Stone, Wajda, Herzog) e i buoni film, gli omaggi e le retrospettive (molto interessante ma monocolore la selezione American Politics), purtroppo necessariamente poco seguite, sono state più legate alla programmazione principale rispetto agli anni precedenti, in modo da creare una rete di rimandi e risonanze del tutto positiva. Restano molte cose: il ben calibrato Moonlight, storia di un uomo finito nel giro della droga dopo una vita di stenti e violenze; l’ultimo film di Wajda, Afterimage, quasi un testamento sull’arte libera, individuale, vera; lo stupendo Manchester by the Sea, forse la cosa migliore vista quest’anno, che unisce dramma, sorriso ed espressività filmica con la sapienza registica dei migliori, e a proposito di migliori Herzog, che non invecchia mai e che, con Into the Inferno, resta sulla frontiera del cinema più bello, documentando i vulcani della sovrana madre indifferente, la natura, di cui imita l’intensità. Poi il labirintico Una, la psicosi in montaggio alternato di Fritz Lang, la città vuota color pastello di Louise eh hiver, l’asfittico Immortality e la violenza per hobby di Hell or High Water sono tutti ingredienti di un’edizione riuscita, dove quasi ogni prodotto supera la sufficienza e si lascia ricordare per qualche aspetto. E l’Italia? Con Vicari, Patierno, Di Porto e Placido, oltre alla preapertura di Pif, si puntava a prodotti solidi e a sorprese, i primi ci sono stati, le seconde no. Quello di Karen Di Porto è un film scialbo, troppo trascurata la regia e troppo approssimative le intenzioni, mentre Isabella Ragonese in Sole cuore amore dà una delle sue interpretazioni migliori e 7 minuti di Placido è un film corale è coeso, che rimodernizza e cala nella realtà del lavoro di fabbrica il capolavoro di Lumet, 11 angry men. A mancare è stato il film inaspettato, la sorpresa, un’opera capace di brillare a livello internazionale e restare tra gli imprescindibili film dell’anno, ma tra scoperta fortunosa ed equilibrio di qualità preferiamo di gran lunga il secondo.