L’indefinibile invito di Diaz
Di Figli dell’uragano e del cinema di Lav Diaz non si può dire nulla con oggettività. Non si può dire che è potente perché molti lo troveranno vuoto, non si può dire che è affascinante perché molti lo troveranno noioso, non si può dire che è essenziale perché molti lo diranno prolisso. Allora cos’è? Come giudicarlo?
Non è realistico perché il bianco e nero “desatura” la percezione del reale, ma Diaz non vuole fare miti e simboli: la sua macchina da presa fissa è incaricata di registrare i minimi dettagli della realtà senza volerle aggiungere significati che l’immagine non abbia già in sé. Solo due cose possiamo dunque dire, la prima è che il cinema di Diaz è e non è ogni cosa, di ogni sensazione o emozione è una cosa ed è il suo opposto. Per questo ha aperto e apre discussioni, per questo lascia alcuni basiti dell’apprezzamento altrui e lascia altri furiosi per il mancato unanime riconoscimento. Per questo alcuni parlano di film impossibili da vedere ed altri di film che è impossibile non vedere, ma proprio in questa sua capacità di gettare luce su due fazioni opposte di critica, nel suo saper aprire spiragli da cui osservare i due versanti opposti della montagna-pubblico, sta la dimostrazione della sua sublimità, dell’alta vetta artistica da cui l’opera di Diaz può osservarci essendo osservata. La seconda cosa è che quello di Diaz è un invito, che può essere accolto o declinato, è una richiesta di tempo, attenzione e profondità che non tutti sono disposti a concedere, è un’arte che richiede una scelta che va alle fondamenta del nostro essere uomini in questo tempo. Lo sporadico passaggio di un suo film in sala è infatti come un tifone, un uragano, che dopo la visione lascia devastati e scossi, obbligando ciascuno ad una revisione dei propri canoni, dei propri strumenti di giudizio, così come i protagonisti sono costretti a riorganizzare le proprie vite e ridare loro senso e direzione. Già sette anni prima, in Death in the Land of Encantos, Diaz aveva narrato le conseguenze del tifone Durian, abbattutosi sulle filippine nel 2006, ma se lì mostrava, in forma drammatica, con dialoghi scritti, il disincanto desolato di un popolo, ora a seguito del tifone del 2013 Diaz non mostra la società adulta che aveva costruito ciò che è stato distrutto, ma coloro i quali devono ancora costruire il proprio mondo, i bambini, i ragazzi, scoprendo una vitalità che va oltre la sciagura e una spontanea inventiva che sa tirare fuori castelli anche dal fango. Sembrano i ragazzi delle periferie di Ozu o i “figli della storia” di Rossellini, forse conoscono l’Apu di Ray o l’Ahmed di Kiarostami, se crescendo soffriranno la stessa solitudine e la stessa scissione disillusa dei Figli della violenza di Buñuel dipenderà anche dalla nostra risposta all’invito di Diaz.
Figli dell’uragano [Mga anak ng unos, unang aklat, Filippine 2014] REGIA Lav Diaz.
SOGGETTO Lav Diaz. FOTOGRAFIA Lav Diaz.
Documentario, durata 143 minuti.