VENEZIA 73 – IN CONCORSO
Moniti morali
Il Leone d’Argento per la Miglior Regia è andato ex aequo a due film diversissimi tra loro: La región savaje di Amat Escalante, ibrido di fantascienza, horror e cinema sociale che mira al perturbante e che è in qualche modo segno di una concezione “contemporanea” di certo cinema d’autore, e Paradise di Konchalovsky, film rigoroso e che sotto certi punti di vista è alfiere di una concezione del cinema d’autore più “old style”.
Interessante però è notare come le due opere nella loro quasi totale diversità abbiano un punto in comune che in qualche modo le lega: il substrato quasi metafisico che scorre carsico, certamente più esplicito nel regista messicano ma anche in quel caso non così dominante, e diventa metafora dei contesti storici e sociali raccontati. Nel film del regista russo è in scena l’Olocausto, reso attraverso le storie di tre personaggi, un ispettore della gendarmeria francese collaborazionista, un’elegante nobildonna russa deportata per avere nascosto ebrei e un giovane ufficiale delle SS. Le tre vicende sono tutte in qualche modo collegate e, soprattutto, sono raccontate dai tre protagonisti seduti di fronte ad un tavolo con lo sfondo bianco alle spalle. Inizialmente lo spettatore può pensare ad un processo o ad un interrogatorio, ma pian piano è sempre più chiaro che la motivazione non appartiene a questo mondo, fino al finale che spiega anche il senso del titolo. Paradise è un film rigoroso al limite della stilizzazione e dall’evidente connotazione teatrale, resa per esempio dalla totale fissità della cinepresa, dalla prevalenza dei campi medi e lunghi e dalla centralità dei dialoghi. L’autore lavora sulla teatralità di fondo per trovare un modo ancora efficace e interessante con cui raccontare l’Olocausto, dando alle vicende raccontate una connotazione mistica e – appunto – metafisica, cercando un continuo distacco da un approccio dichiaratamente naturalista e cronachistico (si noti anche come spesso gli elementi più tragici siano filtrati da medium terzi, come nel caso dei cadaveri ammassati visti in fotografia). L’atmosfera irreale si esprime nella sommessa ironia grottesca di certi momenti della prima parte o negli incubi e nei fantasmi del giovane gerarca, ed esplode nel finale che dà al film anche un’evidente connotazione morale ed etica, simile quasi ad un monito. È proprio il finale, per quanto sì coerente e in qualche modo inevitabile, ma troppo didascalico e ingenuo, il punto debole del film, una chiusa non all’altezza del rigore e della consapevolezza che il regista, anche nei momenti troppo verbosi della seconda parte, aveva messo in mostra.
Paradise [id., Russia/Germania 2016] REGIA Andrei Konchalovsky.
CAST Philippe Duquesne, Peter Kurth, Julia Vysotskaya, Victor Sukhorukov.
SCENEGGIATURA Elena Kiseleva, Andrei Konchalovsky. FOTOGRAFIA Aleksandr Simonov. MUSICHE Sergey Shustitskiy.
Drammatico, durata 132 minuti.
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