Mgm, venerdì 20 gennaio 2012, ore 22.50
Dall’albero cattivo non possono nascere buoni frutti
La giovane penna della critica cinematografica ammette di provare un certo disagio davanti ad un film come La morte corre sul fiume, unica, memorabile prova dietro la macchina da presa dell’attore britannico Charles Laughton.
Al di là dell’immediato piacere della visione, ancora oggi molto alto, il critico alle prime armi si trova spiazzato davanti alla monumentalità di un’opera così stratificata e ricca di suggestioni e rimandi, di stimoli e di spunti: dove puntare il lumicino dell’analisi senza elencare tutto come se la recensione fosse il foglietto con la lista della spesa? Come inquadrare un film che allo stesso tempo è quasi un oggetto estraneo nella cinematografia di quegli anni (e non solo) pur mostrando continui agganci proprio con quel cinema? Da dove partire? Dalle suggestioni letterarie, che vanno da Shakespeare – per la tragicità di Harry Powell, il folle predicatore protagonista il quale, anche grazie alla grandiosa interpretazione di Mitchum, come nelle opere del bardo diventa un’incarnazione assoluta del male – e arrivano a Mark Twain (il viaggio in barca dei due bambini, ma non solo)? Oppure riflettere sul continuo sottotesto religioso, sulla visione di un fondamentalismo che pare permeare fino al midollo la società, e che porta ad esiti nefasti e malvagi (il predicatore), all’ingenuità manipolabile (la mamma, interpretata da Shelley Winters), ad un senso comune inane, moralista e ipocrita (i coniugi Spoon), ma anche alla forza d’animo e al coraggio mostrati dalla signora Cooper? E perché non insistere proprio sulla contrapposizione tra Henry Powell e la signora Cooper, che diventa emblematica e che a sua volta si basa sugli inni sacri cantati lungo tutta la narrazione? Come dimenticare inoltre la presenza di alcune tematiche fondamentali della cultura – letteraria e cinematografica – americana, come la riflessione sull’ineluttabilità della violenza, che entra a gamba tesa nella vita della persona fin dalla tenera età, o come il senso della libertà randagia sostenuta dalla rappresentazione della natura? Si può provare a sintetizzare tutto ciò considerando La morte corre sul fiume come una fiaba, irreale e allo stesso tempo radicata nella realtà e nella cultura, che alterna atmosfere horror con tocchi noir e di film d’avventura, aprendo squarci di commedia e anche di comicità da “cartoon”. Come ogni fiaba che si rispetti c’è il protagonista in viaggio e alle prese con prove più grandi di lui, il piccolo John, che deve proteggere l’anello più debole, la sorellina Pearl, il mostro antagonista, ovviamente il predicatore, e l’eroe, la signora Cooper. L’atmosfera è continuamente sostenuta dalle scelte fotografiche, dai giochi di luce che si rifanno all’espressionismo e dalla scelta di inquadrature spesso oblique, o dall’alto. Fiaba è anche il termine più giusto per indicare il senso più vero e puro del film: l’omaggio all’infanzia, la triste constatazione dell’età della purezza macchiata dai pesanti fardelli della violenza e del male, e da responsabilità adulte troppo presto arrivate.
La morte corre sul fiume [The Night of the Hunter, USA 1955] REGIA Charles Laughton.
CAST Robert Mitchum, Shelley Winters, Lillian Gish, James Gleason.
SCENEGGIATURA James Agee. FOTOGRAFIA Stanley Cortez. MUSICHE Walter Schumann.
Thriller/Drammatico, durata 93 minuti.