Il Male invisibile
Ci sono sequenze che non c’è niente da fare, ti rimangono in testa, indelebili e immobili nella memoria. Restano fisse, e ogni volta che le rivedi (o semplicemente le ricordi) le emozioni e le sensazioni sono sempre le stesse, magiche, frenetiche, disturbanti.
L’omicidio della bambina in Distretto 13: le brigate della morte di John Carpenter è sicuramente una di queste sequenze. Improvviso, sadico, illogico, esplicito: un cazzotto nello stomaco, che duole a tutt’oggi. Ma non un cazzotto fine a se stesso, un cazzotto ben assestato tra la gragnuola di pugni che tutto il film ci sferra di continuo.
Ultimo giorno operativo per il distretto di polizia numero 13 di Los Angeles. Doveva essere una giornata tranquilla da passare tra le scartoffie, ma prima un cellulare che trasporta detenuti verso il braccio della morte chiede rifugio a causa del malore di uno dei prigionieri, poi un uomo in stato confusionale si presenta all’entrata del distretto. Quello che gli agenti non sanno è che l’uomo è inseguito da una banda di teppisti, reo di aver ucciso uno di loro dopo che questi gli avevano ammazzato la nipotina a sangue freddo. Inizia così un assedio mortale al distretto: da una parte poliziotti, impiegati e detenuti, poco fiduciosi gli uni degli altri, mal equipaggiati e senza possibilità di contatti esterni, dall’altra i teppisti, superiori in numero, ben armati e particolarmente abili nelle tattiche di guerriglia urbana.
Carpenter, al suo secondo film, ha già le idee chiare sulla sua poetica e sulla sua visione del mondo. In Distretto 13 sono già sviluppati i temi portanti dell’opera carpenteriana: dall’amore per il cinema classico hollywoodiano (qui il rimando più esplicito è a Un dollaro d’onore di Hawks) e al B-movie anni ’50, passando per l’attacco all’ipocrisia dell’American Dream, fino al discorso sul Male Assoluto, che troverà una sua fisionomia nel Michael Meyers del successivo Halloween (1978), ma che qui è volutamente invisibile seppur costantemente palpabile. Carpenter nasconde nelle ombre gli assalitori, senza dargli un volto e un’identità precisa, descrivendoli però come un gruppo organizzato retto da sanguinose leggi tribali: una società violenta e arcaica, cui “l’ordine costituito” non riesce a contrapporsi ma solo a difendersi dietro le proprie macerie, come sottolineato dall’inadeguadatezza del distretto. Chiara metafora del crollo delle istituzioni post-Vietnam e post-Watergate, Distretto 13 mette a fuoco il pessimismo e la sfiducia della società americana degli anni ’70, dove non ci sono più certezze e l’ordine morale è perduto, e lo fa con una visione critica e disillusa: anche l’arrivo, nel finale, dei soccorsi, è più cinico che salvifico, e sicuramente molto meno eroico di quanto ci si possa aspettare. Il tutto merito anche di un’ambientazione inedita, la periferia degradata, metaforico luogo di scontro tra città (ordine, sicurezza, legalità) e natura selvaggia (disordine, violenza, crimine), perfetta cassa di risonanza per la battaglia tra due società e due visioni del mondo agli antipodi.
Come spesso è successo alle opere di Carpenter, anche Distretto 13 è stato accolto con freddezza da pubblico e critica, vuoi per le scene choc, vuoi per il pessimismo di fondo, vuoi per l’originalità della messa in scena e del racconto. Parzialmente rivalutato in questi trenta e passa anni, Distretto 13 è un oggetto da riscoprire e rivalutare, e non solo da un punto di vista interno all’opus carpenteriana: oltre ad aver influenzato gioielli come I guerrieri della notte (1979), Distretto 13 è anche uno dei film più importanti della sua decade, tra quelli che meglio e con più efficacia hanno saputo descrivere un’epoca e le sue pulsioni nascoste. Sarebbe un peccato perderselo.
Distretto 13: le brigate della morte [Assault on Precint 13, USA 1976] REGIA John Carpenter.
CAST Austin Stoker, Darwin Joston, Laurie Zimmer, Martin West, Tony Burton, Nancy Kyes.
SCENEGGIATURA John Carpenter. FOTOGRAFIA Douglas Knapp. MUSICHE John Carpenter.
Thriller, durata 91 minuti.