USA, 2010
Father and son
“Si umanizzò nella solitudine” scriveva Gabriel García Márquez nella sua opera più celebre. Il cinema del figlio, Rodrigo García, risplende in parte della stessa pietas: il decorso innato delle anime sole, inevitabilmente intente a tracimare dighe di ostinato isolamento, permea in toto la sua poetica.
Regista e sceneggiatore di film di successo, attivo tanto nel cinema quanto in televisione (suoi alcuni episodi de I Soprano, Carnivàle e Six Feet Under) García può ben vantare un’insolita coerenza. Tre su quattro dei film che ha all’attivo rivendicano un paradigma fieramente corale e una declinazione che non contempla il maschile. Al pari dell’esordio, Le cose che so di lei, e del successivo 9 vite da donna, è essenzialmente un film di donne. Donne complesse e volitive, come quelle paterne, e, come quelle, intimamente ferite, corrose da un’aridità latente che lotta per vincerle senza riuscirvi. Gli uomini, certo, compaiono. E denotano anch’essi una profondità, un alone taciuto di vita interiore. Ma nel mondo di queste donne, quello arcaico e istintuale del legame materno, essi non cercano e non hanno accesso, se non quando sviluppano la più femminile delle qualità intuitive: l’empatia.
Selezionato dal Sundance nel 2009 e presentato in numerose altri festival, tra cui Toronto e Berlino, Mother and Child è uscito in Italia soltanto quest’anno, nel DVD curato da DNC Enterteinment. E’ una disattenzione immeritata, non tanto per i nomi che costellano cast and credits – da Naomi Watts a Samuel L. Jackson, da Annette Bening a Jimmy Smits, senza contare Alejandro G. Iñàrritu in veste di produttore – quanto per la profondità con cui riflette sull’archetipo materno contravvenendone al contempo i luoghi comuni. Ogni donna, nel film, è madre o figlia, o tutte e due. A legarle è una trama sottile di adozioni e di parti cercati o negati, di madri anaffettive o ingombranti, di figlie trincerate in fortezze di orgoglio. Del rapporto tra le une e le altre García esplora con encomiabile realismo tutta la trascurata ambiguità. Quella tra una necessità di amore atavico e indispensabile e l’inconfessabile senso di colpa, di fronte a un percorso che tutti si affrettano a chiamare naturale ma che, immancabilmente, coglie fragili e impreparate.
Torna la Los Angeles dei film precedenti, appena intravista in scorci e appartamenti, così come le figure e i temi che si affacciavano nell’esordio: l’insoddisfazione che si cela dietro la carriera o la cura degli altri, l’irrinunciabile dovere di reagire energicamente, il richiamo irresistibile delle radici. La regia procede per sottrazione, inanellando quadri antropocentrici e tuttavia spogliati di ogni patetismo. Le angosce, abilmente performate, si tingono di dolorosa familiarità grazie alla consueta ritualità dei gesti, al minimalismo di ambienti quotidiani e ai toni sommessi della fotografia. Ma nessuna scelta è casuale e, per quanto discreta, indirizza l’emozione accompagnandola pazientemente, frammento dopo frammento, fino al pianosequenza finale, che tira le fila di un evolvere meritato e lungamente atteso. Scriveva Gabriel García Márquez: “Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé.”