Un fiore cresce a New York
Il cinema è racconto, il film è storia, la visione è arricchimento, altrimenti sarebbe solo un fluire convulso di immagini. Quando scorrono i titoli di coda di Un uomo da marciapiede, film vincitore di tre premi Oscar (film, regia e sceneggiatura), non si può restare indifferenti, in qualche modo non si è più gli stessi: le immagini che si susseguono sono un pugno nello stomaco, sono una carezza, sono una lacrima che ci bagna il viso.
John Voight interpreta un giovane uomo che, vestito da cowboy, parte per la Grande Mela con l’intento di fare l’Uomo da marciapiede, il gigolò: nel suo peregrinare incontra Enrico Rizzo, soprannominato “Sozzo”, di origine italiana, tisico e zoppo. Se all’inizio, per la legge della strada, l’uno tenta di fregare l’altro, poi, legati da quei morbi che sono fame e povertà, non possono far altro che iniziare un rapporto di protezione, amicizia, si può dire addirittura una forma d’amore. Sull’autobus dal Texas a New York ci sono tutte le aspettative di un giovane uomo che è pronto a spiccare il volo, che è pronto a vendersi, perché l’unica cosa che sa fare è amare le donne, che “piene di quattrini e piene di voglie”; su quei sedili passato, presente e immediato futuro si mescolano, e ciò non può non far male. L’attraente uomo pensa di avere tutte le carte in regola per poter vivere di piacere, ma qualcosa si inceppa e la grande città lo ingloba, rigettandolo e stringendolo in un angolo perché non funzionale alla società produttiva; proprio a quel punto Joe e “Sozzo” si riuniscono in una strana società fatta di dolore fisico per l’uno e psicologico per l’altro, di mutuo soccorso e reciproca dipendenza. Mentre di notte, nella mente di Joe, riemergono antiche ferite, brucianti come appena inferte, si confondono, mescolandosi, stupri e corpi nudi con episodi della sua infanzia e si intrecciano urla materne a quelle delle vittime della violenza sessuale, Rizzo si contorce per i colpi di tosse che lo consumano, trascinandosi per strada, inciampando nella vita, appoggiandosi a quell’uomo, così diverso da lui, ma a lui così affine. L’immagine qui è importante, fondamentale, perché quel piede zoppo, quella faccia madida di sudore e sofferente per le convulsioni e per la febbre restano dentro anche quando il film termina, anche mentre continuiamo la nostra vita: i flashback, i sogni, gli amplessi, i corpi nudi, per l’epoca sconvenienti e scioccanti, provocano sofferenza carnale e visuale, e quel che resta, per lo spettatore contemporaneo, abituato a ben altro, è la durezza e l’immediatezza della forza stessa delle immagini. Voight e Hoffman ci lasciano due interpretazioni da grandi attori – infatti la carriera dei due ha avuto un salto di qualità dopo l’uscita della pellicola, per entrambi la terza – dando il massimo, raggiungendo momenti di lirismo, commozione, toccando quel groviglio materico, fatto di dolore, sofferenza e pianto che ciascuno di noi porta dentro e vorrebbe non tirare mai fuori. Con Un uomo da marciapiede tutto questo viene alla luce, tutto quell’universo sommerso viene portato a galla, nonostante le nostre reticenze. Sulle note della canzone Everybody’s Talkin’, cantata da Henry Nilsson, viviamo una catarsi che è la stessa di Joe e restiamo ammaliati di fronte al racconto di questa storia patetica e intensa, uno strano rapporto di amicizia che nasce, come un fiore solitario, dal cemento della città.
Un uomo da marciapiede [Midnight Cowboy, USA 1969] REGIA John Schlesinger.
CAST Dustin Hoffman, Jon Voight, Brenda Vaccaro, Bob Balaban.
SCENEGGIATURA Waldo Salt (tratta dall’omonimo romanzo di James Leo Herlihy). FOTOGRAFIA Adam Holender. MUSICHE John Barry.
Drammatico, durata 113 minuti.