Sky Classics, lunedì 21 novembre 2011, ore 23.15
New York, New York
Tra le cose per cui vale la pena vivere c’è di certo Woody Allen. Non in blocco, riconosciamolo, ché gli ultimi suoi lavori sono, per usare un eufemismo, altalenanti. Allora, riformuliamo: tra le cose per cui vale la pena vivere c’è, di sicuro, Manhattan.
Nel senso della città, prima di tutto, ma anche del film. Per Allen New York è una metropoli che vive in bianco e nero, sulle note della Rapsodia in Blu di Gershwin. E, da quel 1979 in cui il film arrivò in sala, è così anche per noi. È che Allen sta sempre in bilico, tra pessimismo cosmico (più spesso) e schiarite ottimiste (raramente), tra ironia geniale e filosofeggiamenti seriosi, tra leggerezza e oscurità, tra una vitalità insopprimibile e il terrore della morte. In Manhattan la sintesi è perfetta: si ride tanto e bene durante i dialoghi e i monologhi fiume, ci si incarta tra le parole a macchinetta di una snobissima Diane Keaton, ci si perde tra i capelli sciolti di una giovane e stronza Meryl Streep, ci si scioglie di tenerezza davanti al viso di Tracy, oh, il viso di Tracy… L’atto d’amore supremo per la sua città coincide per Allen in un inaspettato e (chissà) irresponsabile atto di fiducia nei confronti del prossimo. Dopotutto, “bisogna avere fiducia nella gente”, dice Tracy nella battuta che chiude il film, davanti a un Ike/Woody stralunato e non del tutto convinto, eternamente scisso tra l’ammirazione e l’adorazione per gli altri (soprattutto gli “altri” geniali, i grandi maestri, da Mahler a Bergman, fino a quelle meravigliose mele e pere di Cezanne) e la dura consapevolezza che tutti mentono, tutti tradiscono, che l’anima è mutevole e così i sentimenti, i moti del cuore. “Siamo solo esseri umani!” gli rinfaccia l’amico/bambino Yale, “Tu ti credi Dio!”. E dietro la risata che l’inevitabile risposta scatena (“A qualcuno dovrò pur ispirarmi!”) c’è una tensione sincera a qualcosa di più, qualcosa di meglio, che vada oltre le meschinità umane, tanto autoassolutorie quanto ingiustificabili. E allora, per salvarsi, ci si aggrappa alle cose per cui vale la pena vivere: la bellezza, la passione, la trasparenza, l’intensità. Fotografate in un bianco e nero luminoso ed eterno, inseguite dietro quei lunghissimi carrelli lungo le strade affollate, lasciate a volte fuoricampo dai piani fissi ad effetto sorpresa. Ridere tanto, e di tutto, cercare il cuore delle cose, rifiutare le banalità di un cinismo vacuo e malsano, fare l’amore, leggere, scrivere e, soprattutto, guardare. Lasciarsi stupire, ancora una volta, da quel che si conosce già – Central Park in carrozza, il ponte di Brooklyn all’alba – riguardandolo attraverso lenti nuove, che siano quelle di un’infatuazione, di un affetto sincero, di un’inquadratura insolita. Riguardare Manhattan, dunque, ancora una volta, lasciarsi travolgere dalle note di Gershwin, camminare tra i pianeti del museo della scienza durante un temporale. E avere un po’ di fiducia, dopotutto, nella gente.
Manhattan [Id., USA 1979] REGIA Woody Allen.
CAST Woody Allen, Diane Keaton, Mariel Hemingway, Meryl Streep, Michael Murphy.
SCENEGGIATURA Woody Allen, Marshall Brickman. FOTOGRAFIA Gordon Willis. MUSICHE George Gershwin.
Commedia/Drammatico, durata 96 minuti.
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