Iris – lunedì 17 ottobre, ore 11.10
La febbre dell’oro
Dino Risi metteva l’amarezza sopra ogni cosa. Persino sopra il sorriso. Sembra un paradosso, perché un regista di commedie, anche se acuto, è abituato a parlare un linguaggio brillante, se non comico, sostiene per ragioni di genere il linguaggio dei sentimenti e quello romantico, dell’intrigo e del lieto fine.
Dino Risi non sapeva farlo. Sapeva essere comico ma solo se il comico sfiorava o confluiva nell’umorismo cinico, inconfondibilmente sociale; filmava storie d’amore, ma perché al centro di queste storie c’erano gli uomini spesso perdenti in cui Risi si riconosceva, e le donne certamente, ma per come poteva vederle quell’universo di perdenti.
Dino Risi però conosceva i suoi mali, e a ragione, senza moralismi, non li considerava mali ma proprietà del nostro tempo, come il Zeno di Italo Svevo: conosceva la noia, la nevrosi e soprattutto la depressione e il disincanto, suo e della società, quel disincanto che potrebbe essere scambiato per virtù se non avesse ricoperto senza scadenze le possibilità di incantare e lasciarsi incantare. E cosa sono le sue commedie se non una formula disincantata, nello stile e nei contenuti, per riportare con leggerezza questi sintomi sugli altri uomini? Saranno gli anni ’60 a perorare quest’esigenza biografica, in una direzione diversissima dal regista che solo poco tempo prima aveva realizzato Poveri ma belli, Pane, amore e.. Il Risi del decennio precedente è un regista che insegue poco i suoi turbamenti e concentra le sue visioni sulle trasformazioni sociali e di costume, cogliendole come pochi altri e riuscendo ingenuamente a inserirsi nella multiforme stagione di un cinema italiano popolare e ricchissimo. Il Risi maturo invece è l’autore più moderno della commedia all’italiana: non raggiungerà mai la tragicità e il grottesco di Germi (anche se a Germi più che la modernità, interessava il rapporto tra presente e tabù, inesorabilmente drammatico come una tragedia greca), né l’umanità di Monicelli, ma sapeva essere miracolosamente in grado di coniugare l’osservazione sociale, l’evoluzione dello stile, i ritmi (e le canzoni) di quegli anni con la propria osservazione biografica e la crisi dell’italiano. Risi raggiunge l’apice proprio grazie a questa capacità di proiettare sé stesso, l’uomo borghese vinto dalle esigenze sociali, nella commedia, ma sarà questa tendenza tanto personale ad appannare la modernità del suo cinema. Questa modernità che equilibrava contenuto e forma, a un certo punto smette di inseguire la società perché non riesce più a prevederla, e così si arrocca nei racconti di uomini che, come Risi, sono ormai definitivamente fuori dall’epicentro sociale, via via quarantenni poi cinquantenni, poi sessantenni che possono esprimere solo la loro condizione ai margini restando ancorati ai valori e alle modalità di racconto precedenti. È una via che conduce all’anacronismo, alla senilità artistica, capace di produrre ancora qualcosa di importante (come Profumo di donna e Anima persa) ma solo in minoranza. Tanto che a volte si guarda Scemo di guerra, Dagobert e ci si chiede se è possibile ancora vedere tracce credibili di regia.
Il profeta è uno degli ultimi film di Risi ancora degni della commedia all’italiana, lontano dal decadimento che il regista avrà successivamente, ma non di molto. Potrebbe essere la storia di un Robinson Crusoe contemporaneo, ritornato nella civiltà solo temporaneamente, o almeno così tutti vogliono etichettarlo nel corso del film, ma egli preferisce definirsi senza dichiarazioni dialogando con gli altri, e all’accusa “lei è un retrogrado, un nemico del progresso” che gli fa una giornalista, risponde molto semplicemente “no, soltanto uno che non lo sa usare”. È la risposta di un uomo che aveva una posizione sociale, un appartamento confortevole, una moglie, un auto, un’alienazione incipiente che un giorno si ribella alla società di massa e lo fa isolare in una montagna per cinque anni, prima che il “ritorno a casa” lo cambi una seconda volta.
Nel ’68 non piacque, né poteva piacere. Risi, con la complicità degli sceneggiatori Macario e Scola, ragionava sulla sconfitta del moralismo ma nei termini di una cattiva novella che era soprattutto impotente, come se prevedesse benissimo che nessun spettatore conserverà memoria di quel che ha visto perché la società riassorbirà poco dopo ogni proposito. E Risi ne è consapevole più di tutti, è il primo a non avere difese dal suo disincanto. Il suo è lo sguardo di un regista indignato, ma è talmente disincantato che non crede minimamente sin dall’inizio al suo stesso film, al suo personaggio, e più in generale che un profeta possa salvarsi dall’oggi, o già soltanto esistere. Il film, infatti, è la dimostrazione di un fallimento inevitabile, come lo erano Il giovedì, Il gaucho e Il tigre (con cui ha parecchie assonanze). Stavolta nemmeno la malinconia o l’esame di coscienza può salvare un’umanità volta al mediocre per vocazione: allora il racconto che resta non può che ridursi ai minimi termini, affidandosi all’abilità del protagonista (Gassman è Gassman, ma in questo caso è meglio dire Gassman fa Gassman, per l’ennesima volta), all’amarezza di un regista, a una messa in scena trascurabile, senza stimoli, priva di una grande idea di cinema. Poco, e inevitabilmente il qualunquismo peggiora il significato del narrato: i giovani del ’68 sono pedine edoniste se non macchiette superficiali, l’alienazione non esiste più e non è nemmeno accettata, il successo è la nuova legge di identità. Ragioni sufficienti a garantire una pessima accoglienza critica oggi come allora, ma esageratamente. Il profeta, nei suoi limiti, e proprio per i suoi limiti di opera affascinante opera minore e fallita, testimonia il progressivo divario tra generazioni lontane, tra residui di idealismo e il dilagare del consumismo. Le sue imperfezioni, la sua incapacità di essere un film ispirato dimostra quanto questo idealismo di Risi fosse più un’intenzione che non una reale concretezza, un’utopia da coltivare ma che non si realizzerà mai in una società che lo spinge a pensare materialmente. Risi lo sa, tuttavia non riesce ad ammettere neppure il suo fallimento di regista. Ma è ancora in grado di dire che la febbre dell’oro ha colpito anche Robinson Crusoe. Definitivamente.