Per fare del bene non è necessaria la fede
C’è un piccolo momento molto significativo ne Il villaggio di cartone: nel tabernacolo che i clandestini hanno spostato nel centro dell’edificio sacro ormai chiuso e abbandonato per raccogliere la pioggia che entra dalle vetrate del tetto, il disegno e i colori di quest’ultima sono riflessi nell’acqua, accompagnati da un placido commento musicale: appare così, sul pelo dell’acqua, la colomba raffigurata nella vetrata.
Questo è uno dei pochi momenti chiaramente di serenità del film, dove la speranza che Dio esista, messa continuamente in discussione dal parroco protagonista e dal regista, sembra avere una risposta positiva, e dove il convitato di pietra, sempre nostro Signore, sembra essere effetivamente presente.
Olmi continua il discorso e la provocazione iniziati in Centochiodi (rispetto al quale Il villaggio di cartone è un gradino sotto), e prosegue la riflessione sul senso della fede, sui suoi effetti e sul rapporto con il mondo circostante e la modernità. Lo fa mettendo in scena una semplice favola morale, quasi una parabola evangelica, con anche il didascalismo e lo schematismo del caso (che si vede soprattutto nella rappresentazione degli immigrati, meno “sentita” e riuscita rispetto ad altre tematiche del film), e con il prete protagonista che assume il ruolo di una sorta di vecchio Gesù Cristo roso dal dubbio sulla sua stessa fede, ma che riesce a ricevere nuovo nerbo dalla carità offerta ai clandestini accampati nella sua chiesa. Come nello “stile vangelo”, grande importanza viene data al Verbo, e non mancano i grandi proclami e le frasi madre, così come è presente l’insegnamento finale, riportato a chiare lettere in sovraimpressione nell’ultima inquadratura del film.
Se in Centochiodi era la secolare cultura religiosa presente nei libri ad essere inchiodata davanti all’accusa di inutilità, qui il dito è puntato contro l’edificio stesso, che diventa utile solo quando viene abbandonato e chiuso, e contro il senso stesso della fede, efficace e valida solo se supporto della carità. Quest’ultimo sentimento è per Olmi la chiave di forza del cristiano, e dell’uomo in generale, l’unico con cui si può pensare di “cambiare il corso della storia”, e l’unico che, il regista sembra suggerirci tra le righe, può assumere una valenza rivoluzionaria.
Il parroco protagonista assume una valenza tragica rara nel cinema italiano degli ultimi anni, e diventa la voce del regista veneto, diviso tra il fascino di un cattolicesimo antico e rurale e una sorta di diffidenza, contadina anche essa, verso la religione ufficiale, e soprattutto cantore di un mondo in via di estinzione. Questo non significa che Olmi abbia fatto un film puramente nostalgico e anacronistico, fuori dalla modernità e dalla storia: c’è, al contrario, un senso profondo politico e storico importante e sottolineato a grande voce. L’invito alla potenza rivoluzionaria della carità e alla necessità di togliere orpelli di qualsiasi tipi per mettere l’uomo al centro dell’azione, condivisibile o meno, non è il punto, è segno di una visione del mondo e della storia forte e coerente, che conferma Olmi come uno dei pochi registi “pensatori” rimasti.