65° Festival Internazionale del Cinema di Berlino, 5 – 15 febbraio 2015, Berlino
Fondere il bronzo, scolpire il tempo: Il gesto delle mani di Francesco Clerici
Il gesto delle mani, vincitore del premio FIPRESCI alla Berlinale del 2015, rappresenta una delle opere più interessanti di questo inizio d’anno.
Ambientato nei laboratori della Fonderia Battaglia, luogo di riferimento del circuito artistico milanese, il documentario ci restituisce il senso di un rito millenario, quello della fusione a cera persa, tecnica di lavorazione del bronzo utilizzata in ambito scultoreo. Abbiamo intervistato l’autore del film, Francesco Clerici.
Cominceremmo con una domanda di rito: com’è nato il progetto de Il gesto delle mani?
La verità è che se uno arriva in Fonderia durante la fusione non può non esserne affascinato. La fusione dura pochi minuti ma è un momento medievale, potente, religioso quasi. Pericoloso, teso, caldissimo (fuori era inverno e dentro c’erano quaranta gradi). Da lì sono partite moltissime domande che ho cercato di fare agli artigiani e, grazie al fatto che lavoro da cinque anni con l’artista Velasco Vitali (che collabora da anni con la centenaria Fonderia Battaglia), ho potuto passare spesso in quel luogo e interessarmi a tutte le fasi. Più scoprivo dagli artigiani su questa tecnica più mi convincevo che sarebbe stato un argomento “visivamente” (oltre che culturalmente e storicamente) interessante. E così è nato tutto, senza soldi e senza nient’altro che una videocamera 5d, un obiettivo, un cavalletto. In molti, come il critico Sergio Sozzo di Sentieri Selvaggi, hanno detto che il film costituisce un riuscito tentativo di rappresentare il tempo. Hai avuto questa sensazione durante le riprese?
Sergio Sozzo ha trovato una chiave di lettura molto affascinante a cui io avevo pensato solo in parte: il suo merito in questa lettura va ben oltre il mio. Però la sensazione che il tempo fosse il grande protagonista del processo che stavo riprendendo e che fosse un perno della storia, sì, l’ho sempre pensato, sia durante le riprese sia prima, quando ho scelto di fare il documentario. Nella Fonderia Battaglia (che è vicino a via Mac Mahon, nel centro turbinoso della Milano trafficata) ci si trova immersi in un tempo sospeso, un passato che resiste nel presente con una scansione e un ritmo di lavoro che sono assolutamente unici. Il cinema, come la musica, permette di scolpire il tempo, e in questo caso bastava seguire la vita (e il lavoro) lì dentro per creare una “scultura temporale” con una cadenza umana unica e allo stesso tempo antica e magica.
Dal punto di vista stilistico hai scelto le modalità del documentario d’osservazione. Ne deriva una sorta di “immersione nel gesto”. Era questo il tuo obiettivo?
In parte sì: immersione nei gesti, nel luogo, nel tempo (astratto) di una tecnica antica. Su di me queste tre immersioni (che ho effettuato io per primo mentre giravo prima e mentre montavo poi) hanno avuto un effetto quasi di ipnosi. L’osservazione pura, senza interferenze con nozioni o spiegazioni (che tra l’altro spesso non venivano fornite nemmeno a me!), mi sembrava l’unico modo per restituire questa dimensione. Del resto non ho mai voluto fare un documentario che “spiegasse” (come si fa il bronzo, cosa succede nelle varie fasi o quant’altro), ma che “mostrasse”.
La capacità di indagare i processi di elaborazione di un’opera artistica rimanda direttamente alla storia del documentario. Prendiamo, per esempio, Le mystère Picasso di Clouzot: lì si testimonia dell’unicità dell’atto artistico; qui, al contrario, si testimonia della ciclicità del processo di produzione. Ti senti agli antipodi di Clouzot?
No, anzi. In un certo senso l’idea di dare corpo, spazio, tempo e visibilità alle sculture effimere (e ai gesti che le compiono) che si creano e si distruggono per arrivare all’opera finita rimanda in modo diretto ai disegni intermedi e altrimenti invisibili di Picasso raccontati da Clouzot. È una trasposizione in scultura di quel procedimento e quei passaggi, con alcune sostanziali differenze: qui non c’è solo Picasso/Velasco in scena, ma tante mani “guidate” da uno scopo disegnato in modo invisibile dall’artista e “mosse” dalla tradizione secolare (e contemporaneamente dalle sensibilità personali) a cui appartengono. Qui non esistono messa in scena, luci, palchi. Le mystère Picasso è centripeto: il luogo e le inquadrature sono pensate per puntare sempre sull’artista e la sua opera, isolandola e astraendola. Il mio documentario è centrifugo: è sempre pronto a perdersi nei dettagli della fonderia, nei suoi suoni, nei centimetri di materia che si sovrappongono sulle pareti, nelle mani e nei volti degli artigiani. Questa riflessione viene forse dai documentari d’arte di Resnais: un dettaglio di un quadro a tutto schermo ha una forza centrifuga, una ripresa di un quadro in cornice è chiusa invece in una dimensione centripeta. Nel mio documentario ho cercato di far vedere l’opera “in cornice”, nella sua installazione finale (temporanea ma finale), solo al termine del documentario, così da farla tendere sempre a qualcosa di successivo e di centrifugo fino a quel momento conclusivo “chiuso”.
Nel documentario emergono due figure che, seppur diverse, sono accomunate dall’arte del gesto: da una parte Luigi, capace di trasformare un bicchiere di plastica in uno strumento da lavoro, dall’altra lo scultore Velasco Vitali, che, all’inizio del film, modella la cera. Possiamo dire che le loro figure sono speculari?
Se la scultura – come ci suggerisce Manzù – è il gesto delle mani, tutti gli “interpreti” sono piccoli tasselli del documentario, tutti si susseguono speculari e si rimandano l’un l’altro: il buon lavoro di uno permette il buon lavoro dell’altro. Come nel fare cinema. In un certo senso il documentario stesso diventa la scultura finale che raggruppa sia le sculture create dagli artigiani e dall’artista sia tutti i loro gesti.
Nel film l’occhio della macchina da presa diventa il testimone privilegiato di un vero e proprio rito artistico. Pensi che ciò rappresenti il nucleo di una possibile etica del documentario?
Credo di non essere all’altezza di proporre o pensare una possibile etica del documentario, però mi sembra evidente che sia sempre interessante quando la macchina da presa diventa testimone privilegiato di un rito (artistico, sociale, culturale, etnografico, naturale, storico, e così via) e riesce a restituirlo “amando” ciò che racconta senza giudicarlo e contemporaneamente senza enfatizzarlo, nel modo più onesto possibile. Rinunciando a sottolineare la propria presenza, ma ponendosi nel suo ruolo di testimone privilegiato.
Nel film utilizzi un film in 16mm intitolato “Una fusione d’arte” (1967) di Sergio Arnold e un film privato (fondo Lino de Ponti). Come sei entrato in contatto con questi materiali?
Ho iniziato le riprese sicuro che avrei trovato prima o poi una vecchia pellicola girata in una fonderia qualsiasi (mi sembrava improbabile trovarne uno girato addirittura nella stessa Fonderia). Dopo qualche mese ho fatto una ricerca in vari archivi: niente. Ho continuato a girare mentre la preoccupazione saliva e si trasformava piano piano in certezza: non era stato girato niente in una fonderia artistica del bronzo in Italia. Stavo pensando a improbabili piani B: facendo diventare in bianco e nero tutto il mio montato avrei ottenuto quel messaggio di “sospensione nel tempo” (soluzione tanto fascinosa esteticamente quanto facile e banale)? Poi, finalmente, dalla Fonderia Battaglia mi hanno chiamato per dirmi che era apparsa una pellicola in 16 mm del 1967. Era senza audio ovviamente e in condizioni non ottimali, ma era concentrata sugli stessi gesti ed era girata nella stessa identica fonderia: non potevo chiedere di meglio. Alla fine di tutto poi, dopo un anno e qualche mese dall’inizio delle ricerche, Lino de Ponti (l’artigiano del ritocco cere e delle canaline, che lavora in Fonderia da quando ha quindici anni e ne è un po’ la memoria storica) mi ha portato un dvd con materiale molto interessante. Era girato evidentemente da un operatore meno esperto di Sergio Arnold (che era un operatore RAI), ricco com’era di zoom e di inquadrature poco stabili. La qualità del dvd di Lino era pessima. Non era utilizzabile all’interno del film, ma era perfetta per dei titoli di coda che in qualche modo facessero ripercorrere i procedimenti visti e accentuassero ulteriormente questa dimensione di “cortocircuito temporale” di una tecnica sempre uguale a se stessa.
L’uso dei materiali substandard rimanda a una scelta tematica ben precisa: mostrare “l’eterno ritorno” della tecnica a cera persa. Com’è nata l’idea del loro “montaggio parallelo” con le immagini girate da te?
Ho sempre avuto chiaro in mente che avrei voluto far entrare come “interferenze del passato” le riprese d’archivio (quelle girate da Sergio Arnold) all’interno del documentario. Dopo aver sottoposto però il documentario a un paio di amici registi e a due case di produzione sono andato un po’ in crisi: mi consigliavano di tenere tutte assieme le riprese d’archivio e di metterle all’inizio o alla fine, separandole in modo netto da quelle di oggi. Ho provato e riprovato, ma alla fine la mia idea mi convinceva di più, soprattutto dopo la finalizzazione dell’audio, quando ho aggiunto il commento sonoro al footage in 16mm e ho deciso di “far esplodere” le immagini a tutto schermo, senza tenerle in 4:3 come avevo fatto in un primo momento: grazie all’utilizzo dell’audio di oggi come commento di quello del 1967, la continuità temporale dei gesti e del processo risultava ancora più efficace (o perlomeno così mi è parso!).
Il gesto delle mani [Italia 2014] REGIA Francesco Clerici.
CAST Velasco Vitali, Mario Conti, Lino De Ponti, Luigi Contino.
SCENEGGIATURA Francesco Clerici. FOTOGRAFIA Francesco Clerici. MUSICHE Claudio Gotti.
Documentario, durata 77 minuti.