Moderni dr. Frankenstein e i mostri della critica
Ogni anno nei principali festival internazionali di cinema almeno uno dei film in concorso, meglio ancora se quello di apertura, viene preso di mira e bersagliato dalla critica. Quasi sempre, quando questi film “incriminati” approdano in sala e li si vede, si scopre che non sono poi così inguardabili, anzi.
Una sorte simile e immeritata è toccata quest’anno, durante il Festival di Cannes, a La pelle che abito, ultimo film di Pedro Almodóvar, che contamina e “sporca” il consueto mélo con elementi squisitamente thriller e horror. Tutt’altro che non riuscito e incompiuto, vi si possono rintracciare tutti gli elementi tipici del suo cinema: agnizioni improvvise, traumi irrisolti del passato, vendette, situazioni e personaggi camp, cambi di sesso, flashback e andirivieni temporali che confondono, il fantastico che irrompe rendendo piacevolmente illogica e inverosimile la narrazione. Forse La pelle che abito non passerà alla Storia come il suo film migliore ma è impossibile e ingiusto non riconoscergli anche in questo caso originalità nello sguardo, nella costruzione dell’immagine, contenuto ed estetica. Dentro l’ambiente apparentemente asettico di laboratori, sale operatorie e della villa che li cela al suo interno covano drammi e pulsioni laceranti di personaggi che hanno “la follia nelle viscere” e per questo sono votati al dolore, al sacrificio e ai lutti infiniti. Alla fine i veri mostri non sono né lo spietato mad doctor Robert Ledgard (Antonio Banderas), moderno incrocio tra il dr. Frankenstein e Pigmalione, né tanto meno la sua meravigliosa creatura Vera Cruz (la sublime rivelazione Elena Anaya) ma quei critici miopi e annoiati che per colpire un Autore e il suo pubblico hanno svelato nelle loro recensioni colpi di scena e dettagli di una trama ad incastro perfetto che non andrebbero nemmeno accennati. Fortunatamente, nonostante il loro diabolico piano di vendetta, la bellezza e la forza del cinema di Almodóvar rimangono intatte, potenti, travolgenti.