32° Torino Film Festival, 21-29 novembre 2014, Torino
Luci ed ombre
La trentaduesima edizione del Torino Film Festival, la prima ufficialmente targata Emanuela Martini, si è conclusa con il consueto e atteso successo di critica e di pubblico, con quest’ultimo non aiutato da una logistica all’altezza dell’offerta, e da un numero di sale e di posti inadeguato.
La mancanza di due sale rispetto agli scorsi anni si è fatta sentire, accentuando anche il ricorrente problema di chi acquista un abbonamento giornaliero o settimanale, che spesso rischia di restare fuori dalla sala schiacciato tra chi compra i biglietti singoli e la folla degli accreditati. Questi tentennamenti logistici e i disagi rischiano, ed è un peccato, di essere un’ombra su un festival, a livello di offerta cinematografica, sempre più sul pezzo, e che quest’anno, con i pieni poteri presi dalla direttrice, si è mostrato anche più coerente e meno caotico nelle linee guida rispetto alle ultime edizioni. Rimane certo l’idea di voler dare uno sguardo a 360° sul mondo della settima arte, unendo “alto” e “basso”, ricerca e popolarità, con film per tutti i gusti e le attitudini. Allo stesso tempo, però, più evidente è stata l’idea di voler lavorare più palesemente sui generi e sulle loro varie e infinite declinazioni, e di mostrare approcci ai vari canoni non particolarmente conosciuti e diffusi nel nostro paese. Semplificando al massimo, potremmo dire che la tendenza più chiara ed evidente di questa edizione sia stata voler mostrare la possibilità di essere allo stesso tempo inseriti nelle regole di un genere e avere uno sguardo innovativo e anche autoriale: strada già accennata negli ultimi anni, ma che è apparsa più evidente e pregnante, decisamente meno confusionaria. Questo si è visto non solo nella scelta di inserire in concorso un horror a tutti gli effetti come The Babadook (Jennifer Kent), una commedia horror come What We Do in the Shadows (J. Clement e T. Waititi), una comedy indie europea come For Some Inexplicable Reason (Gabor Reisz) e un melò erotico come The Duke of Burgundy (Peter Strickland), ma soprattutto nelle sezioni collaterali Festa Mobile – dove si sono viste alcune delle opere più interessanti, come il racconto di formazione travestito da musical Whiplash (Damien Chazelle), il western crepuscolare The Homesman (Tommy Lee Jones) e la commedia dolceamara Infinitely Polar Bear (Maya Forbes) – e After Hours, sezione in cui i film dialogavano tra loro esprimendo in modo differente le stesse tematiche di partenza. Diventa allora più significativa anche la scelta di dedicare la retrospettiva alla New Hollywood, stagione in cui, forse più che in ogni altra, i generi sono stati messi alla prova, rivoltati e rinnovati. Un festival, quindi, quest’anno dall’impronta più personale e definita, più facilmente collocabile. Ed è un peccato, quindi, l’altra faccia della medaglia: la logistica non proporzionata all’offerta, ma anche la sensazione che la manifestazione non sia radicata nella città come potrebbe e ne sfrutti solo in parte le potenzialità.