SPECIALE JEAN-LUC GODARD
Semplicemente, un’ipotesi di cinema
Col senno di poi, è fin troppo facile parlare della Nouvelle Vague. Perché a oltre cinquant’anni di distanza (ma anche a dieci, in verità) chiunque all’unanimità riconosce – più o meno approfonditamente – il valore innovativo e fondante del “nuovo modo” di intendere culturalmente il mezzo cinema che ha sconvolto l’esausto classicismo fino a quel momento imperante.
Perché esiste una data precisa di inizio “ondata” ed esistono almeno tre film-manifesto: I quattrocento colpi di François Truffaut, Hiroshima mon amour di Alain Resnais (presentati al Festival di Cannes nel maggio del 1959) e Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Perché i nomi cui ricondurre le linee guida di questa rivoluzione sono scolpiti nel marmo: oltre ai tre registi sopraccitati ci sono Claude Chabrol, Jacques Rivette, Louis Malle, Roger Vadim, Jacques Doniol-Valcroze, Eric Rohmer, Agnès Varda… Quasi tutti provenienti dalla critica e dai Cahiers du Cinéma, a sottolineare un sintomatico interesse fra teoria e pratica, possibile solo attraverso un’attività anticipatrice e in un certo senso “pionieristica”. Forse, l’unico modo per uscire dall’impasse dello studio a posteriori è immaginarci spettatori/addetti ai lavori al momento della prima visione di questi capi d’opera. Come e cosa si poteva pensare di À bout de souffle al momento della sua uscita? “Un montaggio e un uso della macchina piuttosto insoliti sono gli elementi che caratterizzano questo film. Il soggetto però assai banale e la sceneggiatura in più parti incomprensibile, oltre ad un dialogo dalle false apparenze intellettualistiche, rendono il film lento e discontinuo” (Segnalazioni cinematografiche, vol. 48, 1960); o ancora “la rivolta di Fino all’ultimo respiro è poco più di uno sberleffo, un atto di opaca e rinunciataria derisione. Prima o poi anche Godard verrà archiviato come un capitolo chiuso, in attesa di nuove scoperte” (Cinema nuovo, n. 149, gennaio-febbraio 1961). La vicenda di Jean-Paul Belmondo delinquente e assassino che si innamora della libera e curiosa Jean Seberg non venne salutata con una salva di fuochi d’artificio: lo spocchioso vento innovatore francese ignorava i fatti storici, si crogiolava nel proprio intimismo e nell’esasperato estetismo. Si poteva, umanamente, fraintendere la Nouvelle Vague, col suo sguardo sghembo che mescolava realismo e finzione, la prepotente introduzione del caso che blocca la narrazione, la provocatoria tendenza al nichilismo e alla sconfitta. Una miopia che oggi appare imbarazzante, così come magari fra tre decenni qualcuno sorriderà leggendo i giudizi sommari e le stroncature dati in questi anni a futuri e insospettabili “maestri” della Settima Arte. Ammesso e non concesso che oggi possa ancora esistere un’ipotesi di cinema provocatoria e controcorrente: cosa farebbero, nell’epoca del post-tutto, Truffaut, Resnais e Godard?
Fino all’ultimo respiro [À bout de souffle, Francia 1960] REGIA Jean-Luc Godard.
CAST Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Jean-Pierre Melville.
SCENEGGIATURA Jean-Luc Godard. FOTOGRAFIA Raoul Coutard. MUSICHE Martial Solal.
Drammatico, durata 89 minuti.