SPECIALE BUSTER KEATON
L’insostenibile avversità di ciò che ci circonda
Decisamente meno conosciuto ai più di Charlie Chaplin, al contrario dell’uomo con la bombetta anzi quasi confinato nella riserva indiana della stima e della conoscenza di cinefili e pochi altri, a Joseph Frank Keaton, meglio noto come Buster Keaton, si ricollegano molti fili della storia della comicità al cinema.
Non solo perché i suoi film hanno dato un impulso decisivo al linguaggio della comicità – per l’uso del montaggio, della disposizione dei piani e dei personaggi in campo e per il fatto di avere reso più complessa la rappresentazione delle gag, evolvendo l’unità di tempo/luogo/azione delle prime comiche e dandone un respiro narrativo e ambientale più ampio (su tutti, Sherlock Junior, ma anche Three Ages). Soprattutto perché Buster Keaton è l’archetipo del disadattato, della vittima cui l’ambiente e il contesto hanno deciso di dichiarare guerra, elemento sottolineato dall’esilità del corpo dell’attore e dalla perennemente perplessa e vagamente malinconica espressione del volto (la centralità del corpo nel comico è un ulteriore contributo dato al genere da Keaton, a partire dai corti degli esordi come spalla di Fat Arbuckle, dove fondamentale era la contrapposizione tra il robusto ed imponente Fat e lo stecchino Buster). I personaggi dei suoi film, spesso gente semplice e assolutamente comune, che fa (o meglio, cerca di fare) cose normali e ha obiettivi normali, esprimono un totale disagio e una totale inadeguatezza verso le azioni e gli oggetti più consueti, che diventano, grazie all’illogica e surreale metafisica della comica muta che ribaltava il senso delle cose, le armi della guerra che il contesto dichiara al protagonista; questo significativamente a partire dagli oggetti più quotidiani e intimi, come la casa (il corto One Week e il lungo Steamboat Bill Jr.) o gli strumenti da lavoro (The General). Così, se Chaplin è il capofila della comicità aggressiva e beffardamente anarchica, la comicità fisica e goffa del nostro è il primo vero punto d’inizio della comicità “difensiva” che dipinge la stonatura tra individuo e contesto e in qualche modo è espressione di un malessere più o meno latente ed esplicito. A questo si ricollegano comicità future anche non immediatamente affiancabili: da Sellers a Tati, da Allen a Wes Anderson (e, per fare un salto in Italia, si pensi ai primi film con Pozzetto o a un certo Verdone). Ma non è solo il comico puro ad avere ereditato spunti da Keaton. Le sue trame erano spesso storie d’amore, con il lieto fine che appare improvviso e straniante, aromatizzato da un retrogusto stonato e grottesco (i corti Lo Spaventapasseri e The Boat). Così, è anche la commedia, in particolare un certo tipo di commedia sentimentale, a dover ricordare il nostro. A partire dalla gloriosa screwball, che ha aggiunto la brillantezza dei dialoghi alla devastazione slapstick, con finali mai davvero del tutto romantici e sempre spassosi, con quel senso di beffardo che lascia intendere che le cose non andranno mai bene fino in fondo. Come, appunto, in una comica di Buster Keaton; cioè, la vita senza le parti noiose.