Il rimosso spostato in cantina
Il nuovo documentario di Ulrich Seidl è un’indagine sulla cantina come luogo dei misfatti e delle passioni inconfessabili. Spinti dalle loro mogli e dalla pressione sociale, gli anziani protagonisti di In the Basement nascondono sotto terra le proprie collezioni impresentabili: trofei di caccia, memorabilia nazista e addirittura un poligono di tiro.
I tratti stilistici di Seidl documentarista sono i seguenti: ossessione per la geometria delle inquadrature (in più di un’occasione ci chiederemo come abbia fatto a filmare senza buttare giù qualche parete), lunghezza e staticità delle stesse, mancanza di commento musicale (quando c’è, è diegetico e spiazzante) e una propensione per le persone anziane e/o grottesche. In pratica il suo documentario è uguale ai suoi film a soggetto, ma questo non è necessariamente un difetto. Proprio come nella “trilogia del paradiso”, Seidl va in cerca delle personalità più eccentriche e le racconta con particolare distacco emotivo. Il regista austriaco non vuole estrarre un campione significativo di persone che rappresentano un gruppo particolare, piuttosto punta dritto ai soggetti più rimarcabili (in senso negativo). Certo, tutti i campioni sono significativi, ma non tutti i vecchietti austriaci hanno un ritratto del Führer in cantina. Scartiamo quindi l’ipotesi dell’indagine etnografica e analizziamo In the Basement come metafora di un particolare tipo di rimosso. Non il rimosso delle passioni più violente o immediatamente pericolose, i protagonisti sono patetici e innocui, ma un rimosso scomodo, quello delle pratiche imbarazzanti che condividiamo solo con gli amici più stretti: la tassidermia, le pratiche sadomaso o il collezionismo di oggettistica della seconda guerra mondiale. È un lerciume sotterraneo che ci fa provare imbarazzo, ma anch’esso va condiviso con qualcuno, come tutte le passioni. L’odio e la perversione covano sottoterra come la brace incandescente: un gruppo di vecchi amici si ritrova in cantina per ricordare i tempi del nazismo (loro erano bambini, forse nemmeno erano nati), tre vecchietti discutono l’inferiorità della cultura araba mentre un uomo di mezza età si fa appendere per le palle dalla sua compagna/dominatrice. I lunghi sguardi in macchina di herzoghiana memoria ci mostrano la banalità spiazzante dei protagonisti, ma mettono anche in luce i limiti dello sguardo di Seidl, che non è sempre così distaccato come vorrebbe farci credere (i suoi soggetti sono spesso lasciati immobili, lo sguardo fisso nell’obiettivo e una musica ridicola che si propaga nell’aria. Troppo facile ottenere il grottesco in questo modo). In the Basement dura solo 80 minuti ma può annoiare lo stesso per via della ripetitività delle situazioni (una scelta coerente coi soggetti presi in analisi) e della totale mancanza di struttura. Mettendo da parte queste tare, il film di Seidl fa un ottimo lavoro nel dare immagine alle perversioni più scomode. Dopo averlo visto proveremo angoscia ogniqualvolta vedremo la presa d’aria di un seminterrato.
Im Keller [In the Basement, Austria 2014] REGIA Ulrich Seidl.
FOTOGRAFIA Martin Gschlacht.
Documentario, durata 81 minuti.