67° Festival del film Locarno, 6-16 agosto 2014, Locarno (Svizzera)
Titanus: cronaca del cinema italiano
Il 67° Festival di Locarno, da pochi giorni concluso, è stato impreziosito dall’ottima retrospettiva dedicata alla Titanus, curata da Sergio Germani e Roberto Turigliatto. Cinquantaquattro film, realizzati nel ventennio compreso tra il 1945 e il 1965 con qualche fuga in avanti e indietro, faticosa selezione di un patrimonio ben più vasto.
Oltre a film celebrati e riconosciuti ovunque – a partire da Il Gattopardo, proiettato in Piazza Grande – la retrospettiva è stata occasione per scoprire opere più nascoste nella memoria storica del cinema italiano, o autori non celebrati a dovere in quanto più difficilmente inseribili nelle macro categorie che quella storia sostiene. Per esempio, Antonio Pietrangeli e il suo esordio del 1953, Il sole negli occhi. Per quanto meno personale, nella dichiarata cornice da “neorealismo rosa”, delle sue opere successive, il regista si mostra già abile nel regalare partecipati ed efficaci ritratti femminili, di donne ai margini, senza dimenticare di descrivere sferzatamente più di un segmento sociale, a partire dalla nascente piccola borghesia commerciale. Così come Il sole negli occhi è una delle meno conosciute di Pietrangeli, I giorni contati è una delle opere meno celebri di Elio Petri, ma anche una delle sue migliori in assoluto. Di una modernità stilistica non così frequente in quegli anni del nostro cinema, Petri affronta il tema della percezione della morte e della conseguente crisi in un uomo che ha visto morire un collega, realizzando uno dei più riusciti drammi interiori del nostro cinema, lontano da certe forzature ideologiche che macchieranno l’ultima parte della sua carriera. Con I fidanzati (1959) Ermanno Olmi invece riflette sulle stesse tematiche de Il posto: la trasformazione dell’Italia in paese industriale e le conseguenze sull’interiorità del singolo e sui suoi rapporti. Raccontando di un amore a distanza, oltre alla consueta capacità d’osservazione dell’ambiente sociale e geografico in relazione all’uomo che lo vive, il regista emoziona con un finale mesto e allo stesso tempo di grande tenerezza, che diventa una sottile presa d’atto di un progresso che sovrasta l’interiorità, anche in questo caso con il supporto di una modernità di linguaggio che rimanda alla coeva nouvelle vague. Una sorta di critica alla modernità del boom economico è presente anche in La corruzione di Mauro Bolognini, un’educazione sentimentale al contrario che un ricco industriale offre al figlioletto idealista che vuole farsi prete. L’eleganza stilistica del regista è notevole, e da un lato offre scene di grande impatto, mentre dall’altro rallenta un po’ la narrazione. Il film comunque è efficace nel portare avanti la sua tesi e nel mettere in scena lo scontro tra due mondi ideali opposti, con un finale che non lascia dubbi su quale dei due vincerà.