Il Cinema Ritrovato, XXVIII Edizione, 28 giugno – 5 luglio 2014, Bologna
Prigioni
Nel 1957 Andrzej Wajda con I dannati di Varsavia firmò un film claustrofobico ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e incentrato sulla resistenza di uomini intrappolati in una “gabbia” dalla quale non riescono ad uscire. L’autore tornò su atmosfere simili nel 1961 con Samson.
Se nella pellicola del ’57 i personaggi erano rinchiusi in una fogna nella quale scappavano dai soldati tedeschi, nell’opera del ’61 il protagonista attraversa numerosi posti di reclusione. Infatti, la pellicola racconta “l’odissea” di un ragazzo ebreo perseguitato dai nazisti che passa da un luogo di detenzione all’altro: dal carcere al ghetto, fino agli altrettanto soffocanti nascondigli nei quali si rinchiuderà nel suo periodo di fuga, periodo che lo porterà ad un forte senso di alienazione. Tramite tale soggetto, l’opera riflette sulle diverse conseguenze della reclusione e della persecuzione: se da un lato vi è la resistenza dell’individuo e la sua forza nell’andare avanti, dall’altro vi sono i conflitti morali che lo attanagliano e persino un involontario e forse momentaneo straniamento dalla realtà circostante. Tutto raffigurato con un uso particolare del Cinemascope, che in tal caso non serve a meravigliare lo spettatore per l’ampiezza delle scenografie o per la bellezza del Technicolor, ma al contrario per avvolgerlo in un bianco e nero contrastato che crea un’atmosfera opprimente e inquietante, dove vi è un quasi continuo senso di pericolo, smarrimento e degrado. La Polonia tratteggiata da Wajda è, infatti, un luogo nel quale non c’è nessuna reale via di fuga; un luogo in cui tutti sono in qualche modo travolti dal sospetto, dalla paura e dalla povertà. Non è dunque casuale che il film si svolga prevalentemente in interni piccoli e claustrofobici e che le poche riprese in esterni raffigurino spesso ambienti di morte e distruzione: dal cimitero al ghetto devastato e pieno di cadaveri. Come se in guerra l’unica via di scampo possibile fosse la morte. Una completa assenza di speranza che viene espressa efficacemente dal rapporto tra il buio e la luce, in primis nella sequenza del passaggio da un oscuro nascondiglio alle soleggiate strade della città. Qui sia la luce sia il buio “accecano” violentemente il pubblico (e il protagonista) imprigionandolo in una sorta di “trappola visiva” che si fa metafora delle gabbie esistenziali e psicologiche nelle quali è bloccato l’essere umano. Tutto in un film che rimanda, infatti, a riflessioni più ampie sul destino dell’uomo, con una regia al tempo stesso rigorosa e barocca, dove il Cinemascope non solo avvolge in un climax, ma si fa anche traghettatore di suggestioni più alte.
Samson [id., Polonia 1961] REGIA Andrzej Wajda.
CAST Serge Merlin, Alina Janowska, Elzbieta Kepinska, Jan Ciecierski, Tadeusz Bartosik.
SCENEGGIATURA Kazimierz Brandys, Andrzej Wajda. FOTOGRAFIA Jerzy Wójcik. MUSICHE Tadeusz Baird.
Drammatico, durata 117 minuti.